La misoginia degli autori greci

La misoginia degli autori greci

La società greca dell’antichità era impregnata di una forte e radicata misoginia, che incideva sulla condizione della donna del tempo, caratterizzata da un’esclusione sia dalla vita politica che intellettuale. Sappiamo che alle attività della poleis non potevano infatti partecipare gli schiavi e le donne. Nonostante ci siano state rare eccezioni di grandi figure intellettuali femminili, come la nota poetessa Saffo, la vita della donna era segnata da forti condizionamenti esterni. Uno di questi era il fatto di essere sottomessa per tutta la vita all’autorità di una figura maschile, che inoltre gestiva le sue proprietà. Dal padre ed eventuali fratelli, si passava poi allo sposo, a seguito del matrimonio che avveniva in età prematura. Alla donna rimaneva dunque solo il compito della procreazione, in quanto l’unico ruolo che essa poteva ricoprire era quello di sposa e di madre. Tranne in occasione di riti religiosi, le donne passavano il tempo recluse in casa, nella parte interna riservata esclusivamente a loro, ossia il gineceo, dal greco γυναικεῖον, derivato di γυνή γυναικός «donna».

Già a partire dalle origini della poesia epica greca, possiamo ritrovare il tema del disprezzo nei confronti del genere femminile, disprezzo indirizzato inizialmente verso una donna in particolare. Infatti, anche nell’undicesimo libro dell’Odissea, all’interno del discorso di Agamennone, egli esprime un aspro giudizio affermando che “nulla è più odioso, più cane di una donna”. In realtà il suo intento è quello di stigmatizzare solo la moglie Clitemnestra, responsabile della sua morte. In seguito con Esiodo il disprezzo nei confronti della donna, definita come origine di tutti i mali, diventerà un vero e proprio topos letterario. L’autore infatti, nelle “Opere e Giorni”, racconta di come sia stata Pandora la prima donna a disperdere nel mondo tutti i mali.

Troviamo esempi di evidente misoginia anche in alcuni componimenti lirici: il più famoso è il giambo contro le donne di Semonide, che verrà definito come un vero e proprio manifesto della misoginia. L’autore all’interno della sua satira presenta dieci diverse tipologie di donna, paragonandole ad animali ed elementi fisici come la terra e il mare. Di questi dieci esempi solo quello dell’ape, simbolo della donna laboriosa e graziosa, è positivo. I restanti versi ospitano un lungo catalogo di violento sprezzo. Egli ci presenta l’esempio della donna “cagna”, caratterizzata da una così forte curiosità che non si ferma “né con le minacce, né se t’arrabbi e le fracassi i denti con un sasso”. Successivamente vengono introdotte la donna “terra” e la donna “asina”. La prima viene descritta come “minorata, non ha idea né di bene né di male. Una cosa la sa: mangiare. E basta.” La seconda invece è “paziente alle botte, capace di tollerare il lavoro e si prende per amante chiunque venga per fare l’amore”. Semonide conclude affermando che le donne sono il più grande male creato da Zeus e continua dicendo che “a qualche cosa par che servano, ma per chi le possiede sono un guaio”.

Questa visione misogina sembra non trovare prosecuzione in un autore del secolo successivo, come Euripide, ma in realtà in alcune sue tragedie sono presenti delle analogie con il pensiero semonideo. Euripide ci presenta, all’interno delle sue opere, figure femminili così carismatiche e dal carattere così forte che si è addirittura arrivati a parlare di “femminismo” euripideo. Egli stravolge i tradizionali ordini: sono le donne che posseggono sia il primato di intelligenza, che il primato etico. Esse inoltre riescono a raggiungere i loro obiettivi tramite piani ben organizzati e rappresentano modelli etici da seguire. Nel caso del personaggio di Alcesti, che darà poi il nome alla tragedia stessa, è lei ad incarnare la virtù del saper morire con onore, valore che veniva solitamente associato agli uomini. Alcesti decide di immolarsi per il marito, al quale era stata offerta la possibilità, da parte del dio Apollo, di salvarsi a patto che qualcuno morisse al suo posto, dimostrando dunque di essere superiore a lui. Nella “Medea”, tragedia incentrata sulle vicende dell’omonima maga straniera, la quale, dopo essere stata ripudiata da Giasone, decide di attuare una crudele vendetta, Euripide descrive dettagliatamente la condizione della donna priva di protezione maschile e del triste destino che le spetta. Medea afferma che le donne sono le creature più infelici. Spiega come sia necessario trovarsi un marito che diventerà poi il suo padrone. Vengono qui evidenziate le differenti situazioni: l’uomo può ripudiare la donna, che invece non può fare lo stesso, oltretutto se l’uomo si stanca di stare in casa può uscire e alleviare la noia, mentre le donne non hanno questa possibilità e sono costrette a guardare solo una persona, il marito. Medea continua, affermando che sia un ragionamento insensato pensare che la condizione delle donne sia più facile in quanto priva dei pericoli della guerra. Lei preferirebbe trovarsi in battaglia mille volte più che partorire un’unica volta.

Ma è ancora troppo presto per tirare un sospiro di sollievo, poiché anche nelle tragedie di Euripide troviamo abbondanti invettive nei confronti delle donne. Non dobbiamo infatti dimenticare che nell’antichità queste erano convenzionali. Sotto questo punto di vista, altra tragedia del medesimo autore da prendere in considerazione è l’”Ippolito”, che narra delle sfortunate vicende che hanno come vittime dell’ira della dea Afrodite la matrigna Fedra e il figliastro Ippolito. Quest’ultimo conduceva una vita nel totale rifiuto dell’amore, causa della punizione divina. In questo componimento le donne vengono descritte come un “ambiguo malanno” poiché sono fonte di guai infiniti per tutti quanti. La critica in questo caso è rivolta sia nei confronti delle padrone che delle serve. Ippolito si rivolge a Zeus chiedendo al dio per quale motivo il genere umano sia costretto a subire continuamente la presenza delle donne. Questo diventa evidente in un passo in cui viene detto che lo stesso padre, dopo aver generato la figlia, averla cresciuta e affidato a lei la dote, la manda via di casa per liberarsi da questo male. Successivamente Ippolito continua affermando che colui che si prende in casa questa creatura “nefasta” inizialmente ne gioisce, ma ciò può solo rivelarsi essere un male, sia che la donna sia inutile per la sua stupidità oppure saccente, situazione secondo Ippolito ancora peggiore, in quanto afferma che “in casa mia non vi sia una che sappia più di quanto convenga ad una donna”. Ippolito conclude affermando che l’unico modo per interagire con le donne è maledirle. Infatti “non sarò mai sazio di odiare le donne, nemmeno se mi si dice che lo dico sempre; infatti anch’esse sono sempre perfide in qualche modo. Dunque o si insegni loro ad avere senno, oppure sia permesso che anch’io le insulti sempre”. Questi pochi brani e autori che abbiamo citato ci offrono un quadro della società greca antica, all’interno della quale la donna era considerata non solo inferiore all’uomo, ma nemmeno allo stesso livello dell’essere umano. Ella era bensì un oggetto da possedere, che veniva passato dalle mani del padre alle mani del marito. Oggetto inoltre considerato come nefasto e portatore solo di disgrazie e sciagure. Dobbiamo ammettere con riluttanza che questa visione distorta, misogina e retrograda purtroppo si riflette ancora nella società odierna. La donna infatti è spesso additata ancora oggi come genere inferiore e dobbiamo impegnarci affinché questo pregiudizio, con il suo corredo di stereotipi, finisca.

Margherita Crucitti e Michela Loffreda 4D cl

 Fonti:

  • Antonietta Porro, Walter Lapini, Francesca Razzetti, Claudia Laffi , Kτῆμα ἐς αἰεί, La letteratura greca, Il Mulino, 2017
  • Treccani online