Birmania, addio democrazia

Doveva e poteva essere la svolta democratica per la Birmania. Ma così non è stato. Aung San Suu Kyi, a capo della Lega Nazionale per la Democrazia, ha vinto in maniera schiacciante le elezioni legislative birmane del 2020, mentre il Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo, vicino all’esercito golpista, ha conquistato solo poche decine di seggi. Il 26 gennaio 2021, il generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate, ha subito pesantemente contestato i risultati delle elezioni pretendendo dalla commissione elettorale un nuovo conteggio dei voti per presunti brogli perpetrati proprio dalla Lega Nazionale per la Democrazia.

La commissione elettorale ha da subito preso posizione contraria rispedendo al mittente le accuse mosse al sistema elettorale. Fatto sta che i militari non hanno certo preso di buon grado la decisione della Commissione elettorale ed hanno duramente colpito il sistema democratico del Myanmar: subito arrestati il consigliere di Stato Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint così come altri leader del partito al governo. In seguito, l’esercito del Myanmar ha dichiarato lo stato di emergenza della durata di un anno e ha affermato che il potere era stato consegnato al comandante in capo delle forze armate Min Aung Hlaing che ha giustificato questo colpo di Stato con la necessità di preservare la “stabilità” dello Stato. Inutile dire come la repressione abbia poi colpito anche Aung San Suu Kyi: l’ex leader di fatto del governo civile birmano deposto dai militari, è stata arrestata per possesso illegale di walkie talkie e violazione delle norme sul distanziamento durante una manifestazione.

Inutile sottolineare come i capi di imputazione sia – nel caso di specie – pretestuosi. Così come lo è la sua detenzione. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, su proposta britannica, ha tentato di approvare una risoluzione che sollecitava il “ripristino della democrazia” in Myanmar, condannando l’azione dei militari del Myanmar e chiedendo di rilasciare i detenuti. La dichiarazione non è stata approvata a causa del mancato sostegno di tutti i 15 membri del consiglio: Cina e Russia, in quanto membri permanenti del consiglio e quindi con potere di veto, hanno rifiutato di appoggiare la dichiarazione stessa.

 

Di Tommaso Pinardi