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Il sistema onomastico romano: poca immaginazione o c’è dell’altro?

Qualche settimana fa, a lezione di letteratura latina, abbiamo introdotto la figura del poeta Catullo. Durante la spiegazione la professoressa si è soffermata sulla sua burrascosa storia d’amore con Clodia, una matrona romana da lui celebrata nelle sue opere con il nome di Lesbia. Clodia era una donna bellissima, indipendente, acculturata… e sorella di Clodio. Che immaginazione! Questa considerazione mi ha dato lo spunto per approfondire i criteri di scelta dei nomi romani.

I romani avevano tre nomi: un prenomen, ovvero il nome di persona; un nomen, che era il nome del gentilizio; e un cognomen, che indicava il gruppo familiare di appartenenza. Ma le donne, a differenza degli uomini, non venivano designate con tre nomi, bensì con due: il nome del gentilizio e quello familiare, mancava perciò il prenomen, quindi il nome individuale.

Cornelia, Cecilia, Tullia, i nomi delle donne romane, non sono infatti nomi individuali, ma nomi gentilizi, accanto ai quali, quando nella stessa famiglia convivevano più donne e potevano nascere equivoci, si usava aggiungere Maior e Minor (maggiore e minore), o Prima, Secunda, Tertia, e via dicendo.

Quindi la donna non era considerata come singolo individuo; difatti era ritenuta un oggetto, il cui unico scopo, il cui unico obbiettivo, la cui unica realizzazione nella vita era quella di procreare (inoltre i figli erano unicamente dell’uomo, poiché la donna era ritenuta solo un “contenitore”). Anche all’interno della famiglia non esistevano come individui indipendenti, ma erano sottoposte fin dalla nascita al potere del pater familia e, quando andavano in moglie, divenivano subordinate al potere del marito.

Per ritornare a Clodia, il suo nome completo era Clodia Pulcra in quanto sorella di Publio Clodio Pulcro, quindi “Clodia” non è altro che il nome del gentilizio femminilizzato.

La domanda che mi sono posta è come mai i romani nonostante fossero avanzati in tutti gli ambiti, dalle opere architettoniche alla letteratura, ritenevano che la donna non dovesse possedere un nome proprio. L’unica risposta che ho trovato, documentandomi su alcuni libri riguardo la cultura romana, è che i romani consideravano la più grande virtù della donna la pudor (il ritegno). La virtù delle donne richiedeva quindi che il loro nome non venisse neppure pronunciato. Non a caso sulle tombe sono presenti iscrizioni che lodano come esempio di pudicizia quello di una donna di cui nessuno conosceva il nome.

La tanto lodata pudor la considero, seppur con occhi moderni, non altro che una scusa per mascherare il forte razzismo verso le donne. Allo stesso tempo penso sia inutile condannare i romani per ciò che credevano, nonostante sia ingiusto e sbagliato, perché è successo e non può cambiare; al contrario ci deve far riflettere su quello che possiamo fare oggi per migliorare la nostra società.

Margherita Cito 3C