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Versare lacrime di coccodrillo – alla scoperta del famoso detto

di Maria Bevilacqua, 3BCL

“Basta piangere, sono solo lacrime di coccodrillo!” Quante volte, durante l’infanzia, ciascuno di noi si è sentito dire queste parole dai propri genitori? Probabilmente tante. 

Magari piangevamo perché ci era caduto il gelato in terra, perché non ci compravano le figurine che tanto volevamo, perché ci rimproveravano per aver spinto il nostro fratellino; insomma, anche i motivi non mancavano. Quello che accadeva e accade meno spesso, invece, è chiedersi come mai esista proprio questo modo di dire, quali siano le sue origini e soprattutto se i coccodrilli piangano davvero; non è cosa da tutti i giorni, in effetti, vedere un coccodrillo piangere e sorge perciò spontaneo chiedersi se ne siano realmente in grado.

Il detto viene riferito propriamente a quelle persone che, una volta compiuto o avvenuto qualcosa con conseguenze negative, simulano dispiacere e pentimento, sebbene siano, in verità, indifferenti, se non addirittura compiaciuti, per l’accaduto. Inoltre, più generalmente, ci si serve di questo modo di dire quando qualcuno si dispiace o si lamenta molto per un fatto in realtà non tanto grave e che quindi non implica tale un alto livello di sconforto.

Il proverbio è ampiamente diffuso non solo in Italia ma in tutta Europa, dove viene tradotto spesso in modo quasi letterale in molte lingue; ad esempio, la forma inglese è: “to shed crocodile tears”. 

Andando indietro nel tempo, fino ad arrivare nell’antica Grecia, si può individuare una variante alquanto simile. I Greci, infatti, pare dicessero “versare lacrime megaresi”, alludendo all’ipocrisia che, secondo gli Ateniesi, contraddistingueva gli abitanti di Megara.

Tornando alla versione dei coccodrilli, le sue origini risalgono a tempi piuttosto antichi, tanto da essere datato almeno al XIII secolo. In quel periodo era diffusa la credenza secondo cui i coccodrilli, una volta uccise e divorate le proprie prede, versassero lacrime perché “pentiti” delle proprie azioni. In alcuni casi poi, il mito si riferiva, più nello specifico, a quei coccodrilli che consumavano prede umane, ma anche a quegli episodi in cui a piangere era la femmina di coccodrillo dopo aver mangiato i suoi stessi figli.

È stato possibile constatare la diffusione del detto nei secoli passati anche grazie a diversi riferimenti letterari, tra cui quello del poeta William Shakespeare. Nell’Otello, infatti, scrive: «Oh demonio, demonio! Se la terra potesse partorire fecondata da lacrime di femmina, ogni goccia sarebbe un coccodrillo!». In questo verso si accenna alla falsità del pianto femminile attraverso un riferimento, non casuale, ai coccodrilli. Altro rimando si trova anche nei Viaggi di Giovanni di Mandeville del XIV secolo. 

Ora però, dopo aver appurato le sue origini, rimane solo un’ultima curiosità da soddisfare: i coccodrilli piangono veramente?

La verità è che diversi rettili, seppure non per un dolore emotivo, hanno la possibilità di piangere; si parla perciò solo di lacrimazione e non di vero e proprio pianto. Nel caso particolare dei coccodrilli la lacrimazione è piuttosto abbondante ed essendo loro animali senza sudorazione ha una funzione puramente fisiologica. Ciò a escludere, quindi, la motivazione di pentimento ed emotiva. Le lacrime servono a detergere l’occhio e a lubrificarlo così da agevolare il movimento della seconda palpebra che lo protegge in immersione, oltre che ad espellere i sali accumulati, cosa che altrimenti avverrebbe solo attraverso gli escrementi. La lacrimazione aumenta se il coccodrillo rimane a lungo fuori dall’acqua ed è questo fenomeno che comporta la credenza sulla femmina del coccodrillo. La femmina infatti depone le proprie uova sulla terraferma, trascorrendoci molto tempo; una volta schiuse, riconduce la prole in acqua al sicuro dai predatori, trasportando i piccoli nella sua bocca.

Ecco quindi svelato il mistero. Ora sembra però quasi doveroso fare delle scuse almeno a quelle mamme coccodrillo, ritenute in tutto questo tempo un pericolo che in realtà non hanno fatto altro che proteggere i loro cuccioli dai veri pericoli, tra cui forse rientra anche l’uomo.