Marina Abramovic – Марина Абрамовић

Tra i vari artisti visti durante il percorso di educazione civica quella che senz’ombra di dubbio ha catturato maggiormente la mia attenzione, nonché curiosità, è stata l’artista serba Marina Abramovic. La performance in particolare che ci è stata esposta è stata Rhythm 0 allestita nello studio Morra a Napoli. Sono rimasta alquanto esterrefatta dalla sua esibizione e, ad esser franchi, anche affascinata, e la prima domanda che mi sono posta in merito è perché mai l’artista avesse voluto cimentarsi in una tale esibizione, da cosa è nato tutto? Perché mi ha colpita così tanto?

Ebbene, per rispondere al primo quesito negli anni settanta ci sono stati almeno due eventi in ambito artistico che hanno volontariamente messo alla prova ragionamento e pensiero, istinti per cui l’uomo dovrebbe essere portato a non nuocere a nessuno e socializzare, hanno portato l’essere umano al limite della curiosità e della bestialità.  Questi eventi sono l’esperimento psicologico sociale carcerario di Stanford e la performance Rhythm 0 di Marina Abramovic. L’Abramovic tre anni dopo l’esperimento di Stanford, conosciuto anche con il nome di effetto Lucifero, decise di replicare quest’ultimo in un altro contesto e luogo dopo che il primo si era svolto in un finto carcere. L’artista serba è sempre stata rinomata per le sue bizzarre perfomances, nelle quali spinge la sua energia e il suo corpo oltre i limiti. Così nel 1974, decise di mettere alla prova gli spettatori con Rhythm 0, performance allestita nello Studio Morra, a Napoli. In una stanza l’artista era ferma e immobile dietro a un tavolo e su un foglio erano riportate delle istruzioni: in quelle sei ore di performance, l’artista sarebbe rimasta impassibile, mentre il pubblico era invitato a fare qualsiasi genere di azione. Marina Abramovic fece allestire un tavolo sul quale erano riposti 72 oggetti che gli spettatori potevano usare sulla sua figura. Erano presenti oggetti innocui, come piume, scarpe e rose; ma anche oggetti pericolosi, quali: catene, lamette e persino una pistola carica. Si formano due gruppi distinti di pubblico: uno volto alla violenza, i cui membri le tagliarono i vestiti e la pelle con le lamette, le succhiarono il sangue dalle ferite, la punsero con le spine delle rose e compirono persino azioni tendenti alla violenza sessuale. Il secondo gruppo, invece, era propenso a proteggerla dal primo. Quando la pistola carica venne messa nelle mani di Marina e puntata alla sua testa, col dito poggiato sul grilletto, nacque una rissa tra i due gruppi e uno dei membri del gruppo di protezione prese la pistola dalle mani di Marina e la gettò dalla finestra.

Dopo le sei ore previste, alle due del mattino, non appena Marina ricominciò a muoversi, il pubblico scappò dallo studio, incapace di confrontarsi con l’artista come persona e con le sue stesse azioni. Quella sera, la Abramovic dimostrò che il pubblico, spinto da un sadico senso di curiosità, avrebbe potuto anche ucciderla. Il pubblico dello Studio Morra aveva dimenticato completamente che si trovava davanti a un essere umano. Questi due eventi dimostrano, l’uno in un modo diverso dall’altro, che il corpo umano è tanto complesso quanto fragile. Ci vuole davvero poco a trasformare l’umano, essere senziente e dotato di pensiero, in un animale istintivo e spietato.

La performer Marina Abramovic decise di organizzare questa performance spinta dalle accuse, di egocentrismo e masochismo, poiché, nelle precedenti opere, era sempre lei in prima persona a nuocersi e spingersi oltre il limite della sopportazione umana. Decise quindi di dar vita a un’opera con cui dimostrare quanto il pubblico, invitato ad agire dalle istruzioni dell’artista e dagli stessi oggetti presenti, potesse spingersi oltre. Questo mi ha colpito di quest’artista, il suo rischiare e andare a modo suo “controcorrente”, quasi volendo fare una sfida contro sé stessa e il pubblico. Ciò che inoltre mi ha affascinata di Marina Abramovic è quel che mi suscita nella visione delle sue performance, sensazioni intense quali: incredulità, inquietudine e dire il vero anche un po’ di disagio che al contempo si fondono in ammaliazione e paura. Queste trasportanti sensazioni diventato esse stesse la vera performance da guardare, è come se sul momento si stesse producendo altra arte e l’arte è ciò che porta a riflettere lo spettatore e suscita varie emozioni e l’Abramovic in questo si distingue con i suoi atti di autolesionismo e di sottoposizione a condizioni fisiche estreme. Il trasporto che sento nel guardare una sua opera è differente da quello che ho, ovviamente, nell’ammirare un Michelangelo o un Lippi, in quanto, cerco di provare e capire ciò che vedo sulla mia persona, quindi, non solo su un piano mentale; ma anche fisico. Con quest’ultima affermazione, non intendo di certo dire che mi farei anch’io graffiare la pancia da una rosa o puntare addosso una pistola, ma mi affascina quella sottile linea che presente tra limiti mentali e fisici, oltre al fatto che grandemente sono incuriosita dal comportamento umano e dalla sua vera natura. L’Abramovic è riuscita a mettere in luce i lati più bestiali di certi individui soltanto stando ferma, inerme: per quanto, oramai, l’uomo si sia civilizzato e umanizzato, non si sa mai cosa la nostra testa è in grado di elaborare nelle situazioni favorevoli.

Elisabetta Maria Sarra IVC cl