La concezione del lavoro per Virgilio ed Eschilo

Una delle caratteristiche più costruttive e moderne delle Georgiche, scritte dal noto Virgilio, è riconoscibile nella concezione di lavoro. La fatica del duro lavoro è dunque “dono” di Giove, il padre, agli uomini per non far che le loro menti si “addormentino” nell’ozio che produce solo fiacchezza e vizio offuscando la mente.

Rispetto all’omnia vincit amor dell’ecloga ed il labor omnia vicit delle Georgiche, segnala uno stato d’animo più severo e produttivo. La fatica personale, quotidiana e incessante, dell’agricola, la sua lotta contro il clima e la terra si presentano come le stesse fondamenta di quei “mores maiorum” che la politica culturale di Augusto voleva restaurare.

Il cosmo dell’agricoltura, per Virgilio, è in primo luogo il mondo della fatica. Lavorare la terra è un mestiere duro, che ha bisogno di un perpetuo lavoro per strapparle, per così dire, i suoi frutti e per proteggerli, ad esempio, dalle insidie del tempo e degli animali. È comunque bene precisare che questa fatica incessante non è una pena per Virgilio, ma un dono di Giove all’uomo, perché non smetta di esercitare l’ingegno che lo distingue da un animale.

Non bisogna tralasciare, nelle Georgiche, il duplice richiamo all’ars, la quale, si rivela essere indispensabile per controllare la terra e piegarla alle necessità dell’uomo. Ars è superflua nei momenti di giubilo dell’età dell’oro, quando la terra dava di sua spontaneità i frutti e l’uomo viveva beatamente senza la fatica e il bisogno di lavorare. Ma, poiché il centro dell’opera è l’ars, il poeta afferma chiaramente di non rivolgersi ai futuri cittadini della nuova età dell’oro, bensì ai cittadini sofferenti e presenti dell’età del ferro, gli unici che beneficiano degli insegnamenti dell’ars.

E da qui differisce Eschilo. Il tema centrale nelle “Opere e i giorni” di Eschilo è la necessità etica del lavoro, il quale viene imposto dagli dei che hanno privato l’essere umano di un’esistenza facile come castigo, sia per l’affronto di Prometeo, che ha rubato il fuoco, sia per il vaso di Pandora, mandato come atto vendicativo da Zeus e, per mezzo di questo, tutti i mali si diffusero. Anche se il lavoro viene descritto come un castigo superiore, il lavoro viene lodato come base della prosperità dell’essere umano e della sua dignità, si può dire che si ha una visione dualistica del lavoro inteso come disgrazia e, contemporaneamente, come mezzo di elevazione morale. Questa visione si ha nella contrapposizione di due caratteristiche date all’uomo: la giustizia che risveglia il pigro e lo porta a lavorare e a migliorarsi, e la superbia che porta alla guerra e semina discordia tra gli esseri umani. Per il poeta, il lavoro non è inteso come una disgrazia ma come premio perché gli uomini devono evitare gli inganni, la superbia e gli atti violenti e vivere lavorando onestamente rispettando la natura. Il lavoro è quindi un premio e conferisce un senso alla vita dell’uomo.

Elisabetta Maria Sarra IVC cl