Franco Di Nucci: la storia di una rinascita

Intervista a Franco Di Nucci, l’uomo che ha saputo rinascere grazie all’amore e all’importanza della fede. 

Dopo questo suo lungo percorso di vita, ad oggi si sente pienamente risolto oppure sente di avere ancora altra strada da percorrere davanti a sé? 

Sento di dover continuare ad amare e questo mi mette in condizioni di proseguire sulla strada che ho scelto; non ho un obbligo contrattuale, ma è una scelta che mi fa sentire felice e sereno, anche se talvolta, è una scelta faticosa, pesante: avere una trentina di figli che fanno casino tutto il giorno, che devi ascoltare aiutare non è semplice. Dopo un po’, però, vedi che c’è il miracolo della crescita, del reinserimento, ci sono persone che, uscite dalla comunità,  hanno trovato lavoro con contratto a tempo indeterminato, hanno una famiglia, si sono sposati, c’è un bambino, figlio di una persona uscita dalla nostra comunità, inutile dire che quando lo vedo il mio cuore esplode di gioia.

Il merito, non è mio è loro. Credo di essere un traghettatore, loro sono su una riva buia, io li faccio salire su una barchetta, navighiamo assieme e dall’altra parte c’è la luce, se poi scendono e imboccano quella strada, ho solo fatto il mio.

Quando le persone arrivano da voi, all’inizio è difficile rapportarsi con loro e portarle ad aprirsi? 

Sono persone molto chiuse, se fosse stato altrimenti probabilmente avrebbero affrontato i problemi esistenziali in modo diverso e non avrebbero scelto il male. Parliamo di persone che non non si fidano di nessuno perché non si fidano nemmeno di se stesse, è il convivere insieme nella comunità che con il tempo fa cambiare le cose: io vivo lì, resto con loro 24h al giorno tutti i giorni, questo permette che con il tempo, io non mi fido più di quello che dici, mi fido di quello che sei; perché sei quello che dici di essere e dici quello che sei veramente, chi si è veramente lo si dimostra con la convivenza nel tempo, con la condivisione. 

C’è qualcosa che cambierebbe nel suo percorso di vita oppure rifarebbe tutto?

Mi sono posto questa domanda diverse volte. A volte sì, credo che avrei potuto fare una vita differente, una vita molto più semplice, io avevo una mia attività, potevo anche accontentarmi. Oggi mi metto seduto con davanti più o meno una trentina di persone, con questa tavola lunga e mi dico, ho fallito una famiglia di 4 persone, adesso ho una trentina di persone che negli anni sono diventate centinaia e che possono salvarsi forse quello che ho fatto è servito per arrivare fino a qui. Un po’ come la storia di Giuda, se Giuda non avesse mai tradito Gesù probabilmente nulla sarebbe accaduto oppure Mosè per 40anni ha vagato nel deserto per scegliere di guidare il popolo di Israele verso la libertà. 

È chiaro che ogni volta che penso a chi ho fatto del male: i miei figli, mia moglie, i miei genitori mia sorella, cognato i nipoti io soffro, soffro anche quando penso che ho fatto del male a persone che non conosco e a cui non potrò mai nemmeno chiedere perdono. Poi penso se oggi sono qui e se decine di persone hanno cambiato vita è anche grazie a Dio che mi ha dato la possibilità di essere presente nella loro salvezza, quindi forse vale la pena di ripetere quello che ho fatto, con grande pentimento però, perché mi dispiace. 

Un giorno ha intenzione di ritornare a Roma con i suoi figli? 

No, li porto qui.  Ho capito che nella vita non conta dove muori, non conta dove sei nato, ho un amore sconsiderato per Roma, io sono nato e cresciuto a Testaccio, però non credo che la felicità stia in un posto, credo che la felicità stia nel cuore: io son stato bene in Toscana nell’altra comunità, son stato bene in carcere dove ho cominciato a vivere una condizione di libertà (ero lì, non potevo fare più del male a nessuno, custodito e protetto), sono stato bene in Puglia dove c’è stata la prima comunità che ho guidato. Forse l’unico solo con gli eschimesi non riuscirei a vivere, il freddo non lo sopporto, ho scoperto che quando si è in pace il posto non conta. 

Io ad oggi mi sento un padre, un padre che accoglie i propri figli così come sono stato accolto io, c’è un detto che dice: per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio quindi tutti possiamo essere padri di questi ragazzi che sono soli e che si sono ridotti allo sbando per responsabilità propria, io su questo sono intransigente, non c’è mai una colpa esterna la responsabilità è sempre personale. La mia comunità è la mia famiglia allargata, ad esempio a Natale, Capodanno, Pasqua,  Ferragosto, io non vado via resto con i miei ragazzi, la mia famiglia viene da me e stiamo tutti insieme lì, non c’è nessun motivo per cui questi ragazzi debbano essere abbandonati nei momenti di festa solo perché io devo andare a divertirmi, l’ho fatto a suo tempo e non ha dato sei risultati molto ottimali. 

Così si conclude l’intervista che rimarrà nel cuore di chi l’ha scritta e si spera di chi la sta leggendo, una storia sulle tracce di una rinascita.  

                                                                                                 Laura Del Casale e Benedetta Falone