Ecletticamente guerriero: Federico Da Montefeltro

Federico da Montefeltro, figlio naturale di Guidantonio da Montefeltro, nacque il 7 giugno 1422 a Gubbio. Questa data, comunemente addotta dalla tradizione, è dubbia: sull’epigrafe del sepolcro di Federico, nella chiesa di San Bernardino, è scritto che, alla data della morte, il duca aveva sessantacinque anni; essendo la data di morte sicura e fissata al 10 settembre 1482, se l’iscrizione dicesse il vero, com’è probabile che sia, questi dovrebbe essere nato nell’anno 1417.

Baldassare Castiglione, militare e umanista italiano, nella sua opera nota come Cortigiano, parrebbe confermare che, il giorno della morte, Federico avesse proprio sessantacinque anni; il che è significativo, nonostante si tratti di un’opera scritta e pubblicata ex post. Tra i biografi, alcuni, come Giovangirolamo de’ Rossi, fissano, ancora una volta, l’età della morte ai sessantacinque anni, altri, come Odasio e Guerriro da Gubbio riportano comunque il 1422 come data di nascita.

Nel XV secolo, era possibile che un sovrano con una moglie sterile avesse una relazione extraconiugale con un’altra donna nella speranza di avere un erede di riserva. Mentre nella maggior parte dei paesi europei la successione dei figli naturali, anche quando legittimati, non era consentita, nell’Italia rinascimentale la “legittimità” non rappresentava un ostacolo insormontabile, e non era raro per una dinastia includere uno o più eredi illegittimi nella successione. A proposito di genealogia, di Federico è noto il padre ma non la madre. Secondo certe versioni, sarebbe Lodovica Ubaldini, di nobile stirpe: il suo antico clan familiare aveva dominato sul Mugello dal VII secolo sino quasi alla fine del Trecento e il suo ramo cadetto della Carda, conti di Apecchio, aveva consolidato la sua influenza sul Monte Nerone, dove i conti avrebbero regnato, in qualità di signori, fino al XVIII secolo.

A detta di una voce di paese, Federico sarebbe stato il nipote e non il figlio del suo presunto padre. Essendosi il primo figlio di Aura (figlia di Guidantonio) e Bernardino Della Carda, rivelato essere un promettente ragazzo, suo padre, che aveva quarantacinque anni e desiderava disperatamente un erede, lo avrebbe portato via e affidato a una bàlia; questo bambino sarebbe poi divenuto Federico III Da Montefeltro.

Secondo una pittoresca narrazione ottocentesca, poggiante su testimonianze di incerta affidabilità, Federico avrebbe contratto una malattia devastante alla mascella, dalla quale lo avrebbe guarito una popolana che, con un medicamento arcano, sarebbe arrivata là dove non erano arrivati i migliori medici appositamente convocati. Altrove si legge di un’affezione cutanea che, superata anch’essa non senza seri problemi, gli avrebbe lasciato sul viso quelle vistose verruche che lo caratterizzeranno, insieme al naso sfregiato, in tutta la futura ritrattistica. Difficile stabilire con certezza di quali patologie si stia trattando, ma è ben possibile che queste confuse notizie si fondino su tutt’altro che improbabili malattie contratte dal piccolo Federico.

È probabile che fosse una certa combinazione di fascino, diplomazia e brutale soppressione del dissenso a mantenere Federico al potere giorno dopo giorno. Quel ch’è chiaro è che, come era accaduto (e accade)  per lo Stato Pontificio, i trentotto anni di regno sempre più gloriosi di Federico furono una res fondata (almeno inizialmente) sulla fictio. Il territorio di Urbino governato da Federico aveva subito un miglioramento considerevole rispetto a quello controllato dal padre e dal fratellastro.

Uno dei rapporti più importanti della vita di Federico è il legame che ebbe con Ottaviano Ubaldini della Carda, di pochi anni più giovane di lui. Si conobbero da bambini, anche se furono presto separati. Ottaviano sfruttò il tempo speso a Milano per acquisire un’ottima formazione accademica e stringere rapporti con gli umanisti che soggiornavano presso quella corte sofisticata. Diede particolare attenzione all’astrologia e all’alchimia e, da adulto, divenne consigliere di Filippo Maria Visconti. Ottaviano tornò a Urbino solo nel 1447. Il rapporto che si sviluppò era basato su una completa collaborazione, sulla fiducia reciproca e una divisione naturale dei compiti e durò per tutta la vita di Federico. In generale, quest’ultimo prendeva le decisioni e Ottaviano le attuava. Era Ottaviano, non Federico, a trattare diplomaticamente con gli umanisti. Manteneva i contatti con l’élite intellettuale del suo tempo e invitava poeti e studiosi a Urbino. 

Dato il forte legame tra Federico e gli Sforza, non è sorprendente che, quando i milanesi cedettero finalmente, dopo tre anni di ostinata resistenza, e accettarono che Francesco Sforza divenisse duca succedendo a suo suocero, Filippo Maria Visconti, Federico sentì che il raggiungimento di questo obiettivo richiedeva qualche forma di riconoscimento formale e proclamò un torneo. Nel XIV secolo, le giostre avevano perso qualsiasi connessione con l’addestramento per la guerra effettiva, ma continuavano a fiorire come sport e come arene per la dimostrazione del valore cavalleresco. La cultura del torneo era quindi lenta a morire: tornei si tenevano annualmente a Firenze, occasioni civili splendenti che permettevano ai Medici di affermare il loro status principesco e di mascherare la modestia delle loro origini. Anche Federico stesso partecipò al torneo da lui organizzato.

Si racconta che il duca, qualche giorno prima del torneo, mentre cavalcava intorno alla campagna, incontrò una giovane attraente intenta a meriggiare sotto una quercia secca. Le offrì, poi, di cavalcare con lui e lei accettò. Dopo l’incontro si separarono, ma Federico aveva dimenticato di chiederle come si chiamasse, dunque non aveva idea di come potesse trovarla di nuovo; tuttavia, il giorno del torneo, la vide tra la folla e si sentì rigenerato dalla sua vista, vista che lo portò, altresì, a intraprendere una serie di atti spettacolari durante il torneo al fine d’impressionarla. Federico raramente agiva d’impulso, ma le donne erano il suo punto debole. Per far capire alla ragazza che stava combattendo nel suo (sconosciuto) nome, mandò un servo a cercare un mazzo di legno di quercia secco e, una volta che questi glieli ebbe portati, li fissò sul suo elmo e sulla testa del suo cavallo; tuttavia, per farli attaccare all’acciaio e renderli sufficientemente visibili, dovette lasciare aperto il visore, condizione alquanto perniciosa.

La giostra non era mai del tutto priva di rischi: i cavalli utilizzati erano potenti e scelti per la loro forza e agilità. Nei tornei, le lance con punta in acciaio venivano utilizzate solo in circostanze insolite. La pratica italiana usuale dell’epoca era di utilizzare lance con piccole corone a tre punte all’estremità; nel caso di lance di legno lo shock dell’impatto faceva sì che la lancia potesse, e spesso lo faceva, scoppiare; invero, “rompere una lancia” era un sinonimo di percorrere un giro in un torneo. È così che, ad esempio, Enrico II di Francia venne mortalmente ferito durante una giostra nel 1559. I combattenti dovevano essere in grado di vedere dove stessero andando, quindi lo spiraglio dell’occhio era sempre una zona di pericolo. L’incidente di Federico fu, in qualche modo, simile. Il destino di Enrico suggerisce che, anche se Federico non avesse commesso l’imprudenza di lasciare alzato il visore, avrebbe potuto comunque subire danni.

Quello che sembra essere accaduto è che il suo avversario abbia colpito Federico direttamente, con molta forza, da qualche parte sul corpo o sulla testa corazzati, che la lancia sia esplosa, e uno dei frammenti abbia distrutto il suo occhio destro. È stato detto che Federico avesse fatto rimuovere chirurgicamente il setto nasale dopo aver perso l’occhio, così da migliorare il suo campo visivo. Federico aveva certamente il coraggio e la forza necessari per farlo, e, dopo decenni di guerra incessante nella penisola, era possibile reperire individui con una certa esperienza nel campo; tuttavia, due medici che hanno esaminato le prove, per quanto esse siano incomplete, tendono a dubitare della storia.

Dopo sei anni di regno, la sua posizione era piuttosto sicura, accettato dal popolo e in buoni rapporti con il papa, ancora Niccolò V, che era più interessato alla diplomazia internazionale, alla ricostruzione architettonica di Roma e all’ampliamento della biblioteca vaticana piuttosto che agli affari dello Stato Pontificio. Ottaviano era al suo fianco e lo sostituiva quando era assente, e Gentile era forse anche coinvolta nell’amministrazione degli affari interni, oltre che nell’allevare i suoi tre figli naturali. La mancanza di un erede legittimo lo preoccupava. La presunta sterilità di Gentile potrebbe aver portato a una freddezza fisica tra i due coniugi, specialmente dal momento che in qualche punto della sua vita Gentile sviluppò una malattia che faceva gonfiare il suo corpo, forse una disfunzione linfatica, cardiopatia congestizia o diabete. 

Seconda moglie di Federico fu Battista Sforza, figlia del signore di Pesaro, Alessandro Sforza, e anche, sebbene non vicinissima, parente dello stesso Federico; per quest’unione il 10 ottobre del 1460 il papa autorizzò il vescovo di Pesaro Giovanni Paterna alla dispensa dal criterio del quarto grado di consanguineità.

Dopo aver cercato la pace e l’unità in Italia senza successo, si unì alla lega contro Venezia, ottenendo condizioni favorevoli per sé e la sua famiglia. La guerra tra Venezia e Ferrara scoppiò il 2 maggio 1482. La presenza di Federico, uomo dall’altissima reputazione militare, destò timore a Venezia. Nonostante la conquista di Ficarolo operata da Venezia, a preoccupare materialmente Federico fu il flagello epidemico che, tuttavia, non fu sufficiente per farlo desistere. Nel profondo del suo spirito, Federico sentì un inderogabile dovere di agire per frenare il crescente potere della Repubblica, una realtà politica che minacciava quell’equilibrio delicato della penisola italiana, così caro al Duca. Dopo una pausa causata dalla torrida afa di luglio, le operazioni ripresero con vigorosa intensità in agosto, a causa dall’intraprendenza della Repubblica di Venezia. Il destino di Federico si fece sempre più cupo. Dopo aver contratto la malattia all’inizio di giugno, la sua condizione non migliorò. Ormai afflitto e debilitato dalla piresi cronica, fu costretto ad essere ricoverato a Ferrara, presso la corte, dove, assistito amorevolmente dalla sorella Violante, cedette all’ultimo respiro il 10 settembre 1482. La sua salma fu, poi, trasportata ad Urbino, dove, dopo la pronuncia d’un’orazione commemorativa, venne solennemente sepolta presso la chiesa di San Donato degli Zoccolanti

Michelangelo Grimaldi