LA COSCIENZA DI UN MATURANDO, NELL’ANNO DEL CORONA

 

Premessa: 

Da quando il Coronavirus, Covid-19 o come lo vogliamo chiamare, è divampato in Italia e nel resto del mondo, sono usciti milioni di articoli su come bisogna comportarsi, come sconfiggeremo il virus, come sarà il mondo dopo la pandemia. Alcuni erano buoni, altri un po’ meno, altri ancora geniali o invece illeggibili. 

Per questo non ho intenzione di proclamarmi chissà quale esperto della situazione, di cui forse sono pure abbastanza ignorante rispetto alla media, ma preferisco, mettiamola così, tracciare un altro sentiero. Concordando sul fatto che il Coronavirus abbia impattato contro le nostre vite come un carro armato contro una Smart, ho deciso anch’io di raccontare l’evento che segnerà maggiormente l’esistenza di tutti noi, ma da un altro punto di vista: ossia, farlo nell’anno che a sua volta avrebbe dovuto più di tutti segnare la vita di una certa categoria di persone, i maturandi nell’anno del Corona. Il frontale che fa l’evento del XXI secolo con il periodo più indimenticabile della nostra vita è di proporzioni epocali. 

Caro Venditti, diccelo tu se le bombe delle sei fanno male o no, se nostro padre assomiglierà mai a Dante, e se la famosa notte di polizia la vivremo se con quegli scellerati dei nostri compagni usciremo violando il lockdown, la sera prima del nostro esame. L’unica cosa che so’…è che certo almeno io ‘sta cavolo di maturità la potevo prende prima, e per davvero! Se solo non mi fossi fatto bocciare in terzo!

Questo è il racconto dei mesi precedenti alla mia maturità, ok, ma credo che qualcosa di simile sia successo in molti quinti licei di questo assurdo anno scolastico. Non ho la presunzione che i miei fatti vi interessino, ma visto che siamo tutti 18/19enni e qualcosa in comune dovremmo pur averla, mi auguro di rappresentare con questo racconto più ragazze e ragazzi possibili. E se non doveste riconoscervi in neanche una sola parola di quello che scrivo, beh, spero almeno di colorare la mia storia con uno stile che vi faccia sorridere, con la coscienza comunque di una cosa: una maturità così la racconteremo per tutta la vita, perché siamo tutti quanti finiti nella storia. 



L’ULTIMO (?) GIORNO DI SCUOLA

Non vi perdonerei mai se l’ultimo giorno di scuola della mia vita dovesse essere un anonimo venerdì 28 febbraio, in cui peraltro sono pure uscito due ore prima per un impegno. Manco mi avete avvisato. Non mi avete nemmeno dato il tempo di salutare compagni, professori, bidelli, le mura della mia scuola. 

La cosa che forse mi fa ancora più rabbia, è che sono riuscito a perdermi pure le ultime giornate di compagnia, perché mi sono beccato la terza influenza dell’anno scolastico che mi ha obbligato a rimanere i primi di marzo a letto da solo; se ci ripenso mi mangio le mani. Sono un tipo abbastanza nostalgico, per cui già negli ultimi mesi sapevo che il mio liceo, il classico Pilo Albertelli di Roma, mi sarebbe mancato da morire; per questo motivo stavo provando a godermi ogni istante, cercando di accettare che sarebbe dovuto arrivare il momento dell’addio, in cui il mio amico Pilo avrebbe dovuto lasciare la mia mano. O forse io avrei dovuto lasciare la sua. 

Arriviamo a mercoledì in cui mi ero pienamente ripreso per tornare a scuola il giorno dopo, avevo un’interrogazione di latino giovedì e un compito di scienze venerdì; stavo studiando insieme a una mia compagna, e arriva il fulmine a ciel sereno. Molti ora si rendono conto di quanto sia duro non stare tra i banchi, ma io l’avevo capito già da prima: “A Marì, detto fra noi, poco male che de scienze nun sapevo nulla, ma t’emmaggini du settimane senza annà a scola?”

 

I 100 GIORNI

Più mi ci sforzo e più dei primi giorni senza scuola ricordo ben poco. Sarà che forse nessuno aveva realmente idea di ciò che stava accadendo, per cui pensavamo fosse un periodo un po’ diverso dal solito, ma nulla di più. Questo è testimoniato dal fatto che, nei giorni immediatamente successivi alla chiusura, con i miei compagni abbiamo persino trovato il tempo di litigare sui famosi 100 giorni. Avevamo fatto davvero un bel lavoro. Anzi, ad onor del vero, “avevano” fatto un bel lavoro. Un gruppo di compagne di classe si era impegnato molto per cucinare dolci, portare bicchieri, fazzoletti, ecc. Il mio compito era quello di andare via da loro con il piatto pieno e tornare con le briciole, il che significava un sacco di soldi. Mi avevano affidato quella mansione, perché (sì, me lo dico da solo ma posso assicurarvi che è vero) con la gente ci so fare, ho tanti amici, faccio il cretino in quel sottile spazio che consente di far divertire e non essere biasimato. Almeno quasi sempre. Ovviamente il grosso del merito va alle mie amiche, ma ero abbastanza orgoglioso di avere avuto successo nel mio lavoro. Ogni tanto qualche professore tirava fuori pure le banconote, lì si che era vittoria. Avevamo totalizzato una cifra leggermente inferiore ai 400 euro, qualcosa di clamoroso. 

Quei soldi ci regalavano 3 giorni in un casale in Toscana, a due passi dal mare. 

Domenica 8 marzo ero con i miei presso il Lago di Trevignano, nell’ultima sortita fuori porta prima del lokcdown nazionale, davanti a un bicchiere di vino e all’acqua limpida (ah, bei tempi!). A un certo punto il telefono comincia a emettere qualche suono. Ignoro per alcuni minuti. Poi però un altro, un altro e un altro ancora. “Scusate ma devo controllare un istante Whatsapp, non vi offendete”. Era successo il finimondo. Messaggi, contro messaggi e contro contro messaggi smuovevano un’innocente domenica di sole perché alcuni, vista l’emergenza, cominciavano a insinuare dubbi: “Ragazzi, non sarà mica il caso di evitare? Siamo 3 giorni nella stessa abitazione, che ne sappiamo se uno di noi è infetto ma asintomatico; poi torniamo a casa, contagiamo i nostri parenti e ce li giochiamo.” “Ma no dai, ti pare che proprio tra noi 24 deve esserci uno che ha il Corona? Io questo weekend sono andata a Napoli e si sta una crema. Piuttosto, abbiamo tutti un posto in macchina?”  Capite la distanza fra queste opinioni, no? Da lì può solo che nascere inevitabilmente un tiro alla fune, prudenti contro impavidi, sbilanciato dalla parte dei prudenti che poco a poco si sfilavano dalla corsa verso la Toscana, lasciando i temerari sempre più soli. “Eh ma poi con i soldi come facciamo? Noi ormai abbiamo pagato tutto”. Apriti cielo, un domandone che per il momento lasciava tutto aperto. 

Per fortuna, o per sfortuna, dipende dai punti di vista, pochi giorni dopo ci ha pensato il nostro Presidente del Consiglio a chiudere ogni discussione: “Da domani ogni attività non essenziale sarà chiusa, e soprattutto sono vietati gli spostamenti da regione a regione.”

 

DIDATTICA A DISTANZA? RAPPRESENTANTI ALZATE LA VOCE

Stavamo cominciando a capire che quello che avrebbe dovuto essere un supporto temporaneo, un ponte fino a che le cose non si sarebbero sistemate, sarebbe diventato la nostra abitudine. Per questo, noi e la scuola dovevamo prendere il concetto di didattica a distanza molto più sul serio di quanto fatto prima. E non eravamo affatto preparati. 

Il Pilo Albertelli ha scelto di adottare la piattaforma Moodle per lo svolgimento delle lezioni online, sconosciuta quasi a tutti. Il problema era che, quando contemporaneamente 800 studenti devono essere registrati su un sito fatto alla bell’e meglio, qualcosa va storto per forza: “Ao qualcuno de voi riesce a entrà?”  Per i primi giorni, anche comprensibilmente, la piattaforma si impalla e i ragazzi non accedono. The show must go on, però, e alcuni insegnanti decidono di andare avanti col programma nonostante docenti e studenti andassero a due velocità diverse: “Emanuele e Davide, potete parlare col prof per la quantità assurda di roba che sta dando?” Certo, come non farci mancare nulla. Vi avevo occultato che ho scelto l’anno peggiore di tutti per diventare rappresentante di classe; la maturità, il campo scuola sfumato all’ultimo dopo aver già pagato, ora pure la didattica a distanza. Fare il rappresentante in teoria è abbastanza semplice, ma quando ci sono grane da risolvere diventa estremamente complicato, perché devi sostenere le ragioni della classe senza andare troppo addosso ai professori, che alla fine se la prendono sempre con te e mai con la classe intera. 

Intanto si continua con la registrazione sulla piattaforma, che tra username, nome-cognome e password sta cominciando ad assumere contorni tragicomici. “A me sicuro me l’hanno storpiato in maniera clamorosa”, sentenzia Ahmed, un mio compagno di origini egiziane che all’anagrafe può vantare ben tre cognomi, ma che diciamo preferirebbe snellire.

“Regà questi so’ matti, ci controllano pure quanto stamo sulla piattaforma! Che so ‘a CIA?” “Scusate ma poi s’è più capito come funziona? Cioè ci mettono delle lezioni registrate?” Continua a imperversare il panico generale, ma la confusione prima ancora che essere tra di noi è tra i prof, che visti gli iniziali malfunzionamenti hanno dirottato alcune lezioni su altre applicazioni, svolgendole addirittura in diretta. Poi, intendiamoci, ci sono anche prof e prof, per cui alcuni sono inattaccabili anche per il primo dei rivoltosi, altri se la vanno un po’ a cercare: -“Emanuele e Davide, quel prof lì è letteralmente sparito e assegna cose senza spiegare mezzo minuto, scrivetegli qualcosa.”  

-“Ma come, di quell’altro stavate a dì che dava troppo e ve lamentate che questo spiega poco? Ma che figura ce famo se io comunico ‘sta cosa, ci contraddiremmo!” Mamma mia, dovrebbero darci la paga a fine mese a me e a quell’altro santo del mio compagno, da quando è cominciata la quarantena avremo scritto 4 lettere se non di più; ci stanno mandando letteralmente al manicomio. Ad un certo punto lui rassegna pure le dimissioni, ma dopo una chiamata di 57 minuti in cui lo pregavo di non lasciar affondare la barca, e due giorni di riflessione, ritorna in sella per finire quanto avevamo iniziato. 

Tra una cosa e l’altra, alla fine, riusciamo a riprendere le lezioni. Non l’avrei mai detto, ma siamo ancora più vanitosi via computer che dal vivo. Diamoci una pettinata prima di andare in onda, vediamo un po’ come sono vestiti gli altri, e guarda quanti di noi hanno cambiato stile! Chi si è rasato i capelli, chi se li è tinti, chi si è fatto crescere la barba. Quantomeno questa quarantena ci ha dato la possibilità di fare qualche esperimento prima di esporci al pubblico. E poi, pure queste videolezioni non sono affatto male, sono un altro spazio che amiamo condividere con i nostri amici, compagni, professori. Ci rifiutiamo di credere che il nostro ultimo anno scolastico sia finito così bruscamente dopo un lungo cammino, e non meriterebbe una fine così ingiusta e disonorevole.  

 

MI RITORNI IN MENTE…

La quarantena comincia a farsi sentire. L’idea di dover rimanere confinati tra le quattro mura è angosciante, ci mastica lentamente giorno dopo giorno. Voglio uscire, devo uscire, faccio avanti-indietro in continuazione. 

Lo spazio più ambito da tutti gli italiani adesso è diventato il balcone, l’unico tentativo per affacciarsi metaforicamente alla vita. E’ pur sempre però una visuale ristretta, vorremmo vedere di più. E allora lo immaginiamo. Così come proprio poco tempo prima ripassavo “L’infinito” di Leopardi, in cui il poeta si finge un paesaggio sconfinato nonostante un ostacolo impedisse la sua vista, mi ritrovo a far lo stesso con l’angolo del parco su cui si affaccia il mio balcone. Cerco di farmi spazio, piego l’albero lontano con la forza del pensiero per vedere solo un metro in più di libertà. Nei prossimi giorni dovrò comprarmi un binocolo, magari riesco a entrare ancora di più in quel minuscolo spazio. 

Altro passatempo preferito dagli italiani in questo periodo, sempre dal balcone, è il flashmob della canzone delle 18. Un brano di un artista italiano da condividere con il vicinato, in modo da far rimbombare tutta la via ed unire i cittadini simbolicamente sotto la stessa voce. Un giorno si optò per “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano. “Chi vive in baracca, chi suda il salario, chi gli manca la casa, chi vive da solo, chi arriva agli ottanta, chi muore al lavoro (mai così attuale…)…MA IL CIELO E’ SEMPRE PIU’ BLU!” Un po’ come dire che, nonostante se le migliaia di storie di ognuno di noi, alla fine siamo sempre tutti sotto lo stesso tetto. E anche questo, ha riportato la mia mente a qualcosa imparato tra i banchi di scuola. Il carme di Orazio “A Mecenate”, fatto quest’anno e ispirato forse a un carme di Saffo studiato invece lo scorso, recita: “Ci sono quelli che sul carro amano battere la polvere d’Olimpia, quelli che una vittoria li trascina fino agli dei; agli uni piace se i romani in folla gareggiano a votarli alle triplici cariche, quest’altro gioisce nel solcare con il sarchio i campi, e non lo smuoveresti nemmeno per tutto l’oro del mondo a traversare l’Egeo in tempesta.” Anche qui notiamo quanto siano diversi gli esseri umani, ognuno impegnato in una cosa diversa; ma alla fine -aggiunge Gaetano- siamo tutti sotto lo stesso cielo, e non ci potrebbe essere niente di più semplice. 

In questi momenti di fantasia, capita anche spesso di pensare a cosa avverrà dopo, quando potremo finalmente condurre una vita semi-normale e rivedere le persone a noi care. “La prima cosa che faccio finisce la quarantena è…” avrò detto e sentito questa frase migliaia di volte. Forse non farò per prima nessuna delle cose esplose dalla mia bocca in questo periodo di delirio, sicuramente però seguirò la strada tracciata da un filosofo che mi è capitato di ripassare recentemente, Friedrich Nietzsche. Sicuramente uscirò di casa con un attaccamento verso ogni cosa, un sì alla vita, con uno spirito dionisiaco che mi porterà ad una gioia sfrenata e irrefrenabile nei confronti dell’intera esistenza. 

Per ora, però, bisogna rimanere legati a casa. E quelle rare volte che si esce dalle quattro mura, è necessario mantenere una cautela chirurgica. Tra dicembre e gennaio il nostro insegnante di fisica ci ha assegnato un libro, “Flatlandia”, che parlava di un mondo distopico in cui gli abitanti erano delle figure geometriche, divise in una rigida gerarchia, che non potevano riconoscersi a prima vista e per farlo dovevano “tastarsi” con estrema prudenza, perché le figure con gli angoli più acuti avrebbero potuto ferire letalmente ogni avvicinamento sconsiderato. “Mamma mia che ansia terribile vivere così”, ho pensato tante volte leggendolo. Beh, ora invece, tra guanti, mascherine, e distanziamenti sociali, sto vivendo la stessa cappa di inquietudine sulla mia pelle.

Tutte queste rimembranze, che poco alla volta mi appaiono come delle visioni, sono il lascito che il mio amico Pilo mi sta dando in questo periodo di distanza, sono la mano che mi sta tendendo per non lasciarmi del tutto solo. E io, da bravo compagno, gliela porgo, visto che ancora non è arrivato il momento di separarsi.



MA QUANDO TORNIAMO? 

Prima il 18 marzo, poi il 3 aprile, poi tante altre date. A un certo punto, però, si arriva allo spartiacque: il 18 maggio. Se entro quella data si tornerà fra i banchi, la maturità si farà come l’abbiamo sempre conosciuta, amata, odiata. Altrimenti, solo esame orale. Ed è il dilemma numero uno, ma che giorno dopo giorno viaggia verso una sola direzione. Il secondo, ben più incerto, è: potremo rivedere i nostri banchi in qualità di studenti, un’ultima volta, il giorno del nostro esame? O saremo costretti a fare una maturità digitale? E’ un pensiero che mi angoscia, quello che al posto di uscire dalla classe accolto dai miei amici come un vincitore, dica a mamma e papà: “Oh io entro in camera, faccio la maturità e ci rivediamo in soggiorno.”  E’ il mio incubo. Vi prego, non così. Leggevo sul Corriere della Sera un articolo di Paolo Giordano, che tra l’altro l’anno scorso fu anche invitato in classe nostra per discutere di un suo libro, su quanto sia importante l’esame di maturità, al di là di ogni retorica. Queste sono alcune delle sue parole a mio avviso più significative: “L’inedito assoluto dell’esame di maturità è che, per la prima volta, un gruppo di adulti in veste ufficiale è lì per ascoltare te, solo te, quello che hai capito, quello che hai imparato, quello che hai realizzato. Un gruppo di adulti che rappresenta un’entità ancora più ampia: lo Stato, il consesso sociale. Senza temere l’enfasi eccessiva, si può dire che l’orale di maturità è un venire al mondo, nel senso che il mondo si accorge di te. Finalmente ti prende sul serio. Per molti ragazzi si tratta di un’occasione unica, che non si ripeterà in seguito. […] Lo so, dovrei finirla qui, ma non mi basta ancora: insieme all’orale a scuola dobbiamo fare di tutto per salvare il tema. E’ l’altra parte fondamentale di quell’ascolto che spetta ai ragazzi che stanno per maturarsi. Se è impossibile averli tutti contemporaneamente a scuola, facciamoli scrivere a casa, senza valutarli, facciamoli scrivere. Anche solo per una ragione egoistica: perché i loro temi di quest’anno costituiranno, un giorno, un archivio storico di valore enorme, la testimonianza di una generazione che diventa adulta in un punto di svolta della storia. Qualcuno li studierà, per capire ciò che stiamo attraversando”.   Parole sante, grazie, grazie per aver messo nero su bianco quello che penso anch’io. Anche perché sennò, scusate, ma perché lo starei a scrivere io ‘sto racconto, se non per avere una traccia di quello che mi passava per la testa (e che mi auguro passasse per la testa di più maturandi possibile) quando ero poco più di un pischello? 

Quello che ho scritto all’inizio -ossia che ci racconteremo di questa maturità per tutta la vita- varrà solo se avremo, oltre ai ricordi, anche delle prove tangibili. E, se il latino mi viene in soccorso ancora una volta, scripta manent.

 

AHH L’ESTATE DELLA MATURITA’…

“Allora regà: Grecia, Ibiza o Interrail?”  E’ la domanda che più o meno si fanno ogni anno gli studenti, nella famosa estate post-esame. Per quelli che, senza troppa retorica, sono ricordi che si portano dentro per sempre; si fanno le cose più pazze, indimenticabili, che spesso rimangono solo tra chi ha partecipato, senza uscire dalle loro bocche. 

Per fortuna (o per sfortuna, dipende dai punti di vista), tra i 100 giorni e il campo scuola salutato all’ultimo, non avevamo avuto neanche il tempo di parlare troppo di quest’altro rito di passaggio; qualche idea buttata là dopo le vacanze di Natale, nulla di più. Certo è, che però il Coronavirus ci sta portando via anche questa. In tv e sui giornali già si parla di scordarsi l’estate 2020, tra distanziamenti sociali e persino lettini separati da barriere di plexiglass. Fatemelo dì, manco un carcerato che riceve ‘na visita dai parenti c’ha così tante divisioni. Se penso che la mia estate della maturità potrebbe consistere in un giro di palazzo e un caffè al bar -ammesso che li riaprano- mi viene da buttarmi giù dal balcone. 

Dipende tutto da questi maledetti contagi, se diminuiscono e quanto diminuiscono. Il momento di maggior fibrillazione è quando sull’orologio scoccano le 18:00, con la conferenza stampa della Protezione civile. “Borrelli facce sognà”, penso tra me e me. Ormai il mio supereroe è diventato il direttore della Protezione civile, pensa come stamo messi. “Ti prego Angelo (in tutti i sensi), dicci che è tutto finito, dicci che potremo tornare alla normalità, che il virus è incredibilmente scomparso e non lo sapete neanche voi perché. Ma soprattutto, dicci che questa estate la potremo fare come tutte le altre, e che il tempo non ci stia rubando i 3 mesi più indimenticabili della nostra vita”. I numeri però non scendono, continuano ad essere stabili, e ogni tanto mi lascio vincere da strampalate crisi isteriche.“Vaffanculo pure a te Borrè, a voi che ci illudete che ogni giorno possa essere diverso. Mi metto sul divano con la speranza e mi fate tornare in camera con una tristezza infinita.”  Sto perdendo tutto, stiamo perdendo tutto, questi giorni non ce li ridarà nessuno, tutto questo per colpa di un virus bastardo che è l’incrocio tra un pipistrello e un animale altrettanto schifoso simile a un serpente. Chi me lo fa fare di svegliarmi ogni giorno e rivivere sempre lo stesso identico incubo? 

Cosa, ho letto bene? Borrelli ha detto che non farà più conferenze stampa? Buon per lui e peggio per me, avrò una persona in meno con cui prendermela.

 

MATURITA’ O ROULETTE RUSSA?

Sono passate alcune settimane, forse un mese, dall’ultimo sfogo. Pian piano la situazione sta migliorando, i contagi sono calati (scusa Borrè, non volevo essere offensivo sopra) , siamo nel pieno nella fase 2 -o forse sarebbe più opportuna chiamarla fase congiunti, visti i numerosi dibattiti a proposito.-  

Finalmente, con un’enorme liberazione, dopo 2 mesi di astinenza ho rivisto i miei compagni. Che meraviglia! Non mi ricordavo quanto fossero belle e belli, saranno mica cambiati durante la quarantena? E’ un discorso un po’ senile, vabbè, ma intanto fammeli abbracc…ALT! che ingenuo, non possiamo. Vabbè, almeno tra un metro di distanza e l’altro ci possiamo vedere faccia a faccia, raccontarci come stiamo, quanto è stata sofferente la quarantena e tutto il resto. 

Eravamo andati a prenderci un gelato, e fra una cucchiaiata e l’altra, me ne esco così, senza preavviso: “Insomma ‘sta maturità l’avete capito com’è?” Non l’avessi mai detto, “Ci vuoi mandare di traverso il gelato per caso?” Effettivamente, forse, sono stato un po’ inopportuno, però il tema coinvolgeva più o meno tutti. Il giorno prima infatti, era stata cambiata per l’ennesima volta la prova dell’esame orale, e francamente tra professori e studenti non ci stava capendo più niente nessuno. Vabbè, dopo aver passato questa diventiamo immuni a qualsiasi cosa. 

Ma è interessante, oltre che divertente, capire quante volte e come sia stata modificata la maturità 2020, che ha fatto stracciare ben più di una volta i piani degli studenti, che poverini ancora non sanno proprio di che morte morire. 

Anzitutto, è importante ricordare che da quest’estate fino a pochi mesi fa ci sia stato un intenso viavai dalla porta dell’ufficio di Viale Trastevere, che naturalmente ha influito sul cambiamento della modalità d’esame. 

1) L’anno scorso è stato Marco Bussetti fautore delle malefiche buste ad estrazione, l’incubo di tutti i maturati 2019 (qualcuno ancora se le sogna…). Per cui, in estate si pensava che avremmo dovuto affrontare lo stesso destino dei classe 2000, e alcuni già si stavano esercitando sulla stessa base.

2) Ad agosto però, complice la crisi di governo il Ministro è stato rimpiazzato -per la gioia di tutti gli studenti- da Lorenzo Fioramonti, che ha messo immediatamente in chiaro di non essere poi così d’accordo con il sistema di estrazione delle buste, per cui almeno dava ai professori la possibilità di scegliere il punto di partenza per il candidato. Insomma, se proprio non erano carogne sapevano in che modo aiutarci…

3) E invece, già ci si stava abituando alla faccia di questo nuovo simpatico ministro che avrebbe dovuto decidere le materie e i professori interni/esterni, che anche lui ha chiuso baracca e burattini: infatti, costui, si è dimesso subito dopo la manovra di bilancio, che a suo dire aveva fornito pochi fondi alla scuola. O forse chissà, magari non se la sentiva di mettersi nei panni del boia, comunicando agli studenti del classico la versione di greco…

4) Motivo per cui, l’incombenza definitiva è toccata a Lucia Azzolina, con un passato da professoressa di storia e filosofia, dirigente scolastico, e un aspetto fisico che i più maligni hanno paragonato a un personaggio di Corrado Guzzanti. E che dunque, dopo averci rifilato già il colpo basso di greco, per l’esame orale non ha voluto stravolgere i piani del suo predecessore. O meglio, fino a che il Coronavirus si è interposto fra noi e la maturità. Da lì è cominciata la sagra delle supposizioni, che -fermo restando la comprensione per la ministra, che ha dovuto vagliare più ipotesi possibili- hanno creato il panico tra i ragazzi. 

5) La prima ipotesi prevedeva un duplice scenario a seconda di quando gli studenti sarebbero tornati a scuola, e già questo aumentava l’insicurezza dei maturandi, che non sapevano se abbandonare i vocabolari di greco e latino per sempre, o se continuare a esercitarsi fiduciosi di rientrare. Dalla data, inoltre, dipendeva anche la presenza di commissari interni o esterni, e nel peggiore dei casi si sarebbe fatta anche una storica maturità da casa.

6) Quando si è capito in che direzione tirava il vento, è definitivamente tramontata l’ipotesi versione-analisi del testo-commissari esterni per lasciar posto alla più auspicata orale-tutti membri interni. Già, ma come? E poi, quanto sarebbe dovuto durare? Inizialmente, anche stavolta la Azzolina non ha voluto discostarsi troppo dalle decisioni prese dal suo predecessore Fioramonti, per cui i professori avrebbero stabilito un tema e noi avremmo cominciato il discorso.

7) Successivamente però la ministra ci è venuta ancora più incontro, attraverso l’ipotesi che fossimo proprio noi a decidere in anticipo un argomento da cui partire e costruirci un fil rouge intorno; facile come un gol a porta vuota.

8) Infatti, neanche il tempo di crederci che c’è stato subito un dietrofront da parte del MIUR, che ha cambiato idea per l’ennesima -e si spera ultima- volta la decisione. In sostanza funziona così. Le uniche due materie che sono collegabili attraverso una sorta di mappa concettuale sono latino e greco, con un argomento stabilito insieme al professore, a cui si aggiunge un testo latino e uno greco a supporto degli argomenti per rimpiazzare la versione. Poi arriva il turno dell’insegnante di italiano, che ci mette davanti un testo facendo rientrare sul ring la famosa analisi che sembrava spacciata. Infine, comincia il tiro al bersaglio. Da lì la commissione ti somministra un argomento da cui devi partire per collegare tutte le altre materie rimanenti, per concludere subito dopo l’esame con l’alternanza scuola-lavoro e cittadinanza e costituzione. Ad assisterti puoi contare su un solo testimone per evitare i tanto temuti assembramenti, per cui meglio scegliere quella persona con cura perché sarà quella che potrà raccontare ai posteri le tue eroiche gesta dell’esame. 

Siamo al 15 maggio, ma ancora non abbiamo ancora la certezza ufficiale, nero su bianco, di come sarà la nostra maturità. Siamo stati spettatori di tantissime illazioni, mai ufficializzate dal Ministero, ma ora il tempo stringe per tutti. Anche per il MIUR. 

Quando vedo o sento i miei amici, mi chiedono tutti curiosi: “Insomma si è capito che vi fanno fare?” Rispondo ogni volta con un rumoroso romanesco “BOOOHHH”. 

Ormai l’incertezza è diventata la nostra unica certezza. Più che una normale maturità, questa sembra essere un giro di una roulette russa. 

 

LE TRE GRAZIE

Fino a poco tempo fa, il mio esame orale lo vedevo come il paradosso zenoniano di Achille e la tartaruga. Più mi ci avvicinavo, più quello scappava via. A studiare studiavo eh, sia chiaro, ma non avevo ben compreso l’idea che ci sarebbe stato davvero un giorno in cui avrei dovuto rendere conto di quanto fatto durante questi 3 mesi (proprio il tempo di una vacanza estiva) ai miei professori. Colpa naturalmente della quarantena, che mi ha indotto a pensare cose del tipo “se non sono tornato a scuola per tutto questo tempo, chi me lo fa pensare che dovrei farlo per un’ultima volta un giorno di metà giugno?” e che non mi ha fatto metabolizzare la fine della mia vita da studente.

La fine di questo comportamento da gnorri, è avvenuta quando si sono spalancate davanti a me le porte di giugno. Ebbene sì, davanti a giugno dovevo per forza abbassare la maschera. Per cui, quando il calendario ha segnato l’1 del mese, ho sentito un solletichino lungo la schiena. “E’ il momento di affrontare le mie più grandi paure”, mi sono detto. A cosa mi riferivo? Alle tanto temute materie scientifiche: matematica, fisica e scienze. 

Ad essere onesto non sono mai stato uno studente modello in certe discipline, per usare un eufemismo. Si mischiava un incrocio di bassissima sopportazione e incapacità cronica del sottoscritto verso questo mondo, durato oltre 14 anni, che mi ha spinto a ignorare la suddette materie per tutto l’ultimo anno di scuola. Un comportamento sicuramente non da persona matura, dove però riuscivo ad arginare il mio super-io convincendomi che se il tempo -per giunta sprecato perché non ci sarei riuscito comunque- impiegato in queste materie era sottratto alle altre, ben più stimolanti e gratificanti. E oltretutto, quando mai mi avrebbero bocciato per matematica, fisica e scienze quando andavo così bene nel resto? Figuriamoci poi quando è scoppiata la pandemia: i due 4 rimediati al primo quadrimestre nelle prime due materie si sono improvvisamente tramutati in 6 con uno schiocco di dita senza che io facessi niente, e solo perché il docente non poteva fare altrimenti. 

Nonostante tutto, però, non volevo fare la figura del menefreghista all’esame, sia per me che per il prof, che si è impegnato così tanto durante la didattica a distanza -forse pure troppo- e che sebbene i votacci credo mi ritenga un ragazzo in gamba. O almeno, sicuramente più dei vecchi professori di matematica e fisica avuti in passato. Per cui, nel piano pensato in vista dell’esame, avevo lasciato le tre grazie per ultime, promettendomi di dedicarle anima e corpo. Qualcosa sarei riuscito a inventare, su, giusto per non fare scena muta. Addirittura studiandole insieme ai miei compagni, capre quanto me, stavo marciando sorprendentemente abbastanza spedito.

 

DI NUOVO INSIEME

Nel frattempo, per celebrare l’ultimo giorno di scuola ufficiale, con i compagni di classe abbiamo deciso di organizzare un pic-nic a Villa Celimontana, invitando anche i professori. Un po’ perché non ci vedevamo come classe da tre mesi, un po’ per esorcizzare insieme agli insegnanti in vista dell’esame, un po’ forse pure per ingraziarceli. Non eravamo proprio tutti tutti, ma c’era davvero una bella atmosfera; il professore di latino e greco si è persino messo a suonare con la chitarra “Notte prima degli esami”, una performance indimenticabile. L’unica pecca è stata che avendo organizzato tutto in fretta e furia il buffet non era proprio ricco, ecco, e la prof di inglese -una senza peli sulla lingua, che devi prenderla così com’è, con tutti i suoi pregi e difetti- se ne è uscita scherzosamente con un “pare de stà alla mensa della Caritas”. Anche quello però non ci ha smorzato, anzi, ci ha fatto prendere ancora meno sul serio quell’appuntamento a metà tra il formale e l’informale . Come si dice in gergo, “l’abbiamo presa a bene”, scherzando amorevolmente tra professori e studenti quasi fossimo coetanei. 

 

UNA SETTIMANA DI FUOCO

Nel mentre, di punto in bianco, il professore di latino e greco si è avvicinato al gruppetto di amici miei con una richiesta piuttosto insolita: ci ha proposto di studiare, infatti, in un convento di monache agostiniane di nome Montefiolo. Se a me il nome suonava decisamente nuovo, non era lo stesso per alcuni compagni, perché una delle particolarità della mia classe è che ci sono dei ragazzi che appartengono a una sorta di comunità cristiana, dove ci sono un sacco di famiglie con un sacco di figli; anche quelle dei miei amici sono molto numerose, e del resto quando hai 5 fratelli a casa è meglio se per studiare in vista della maturità vai da un’altra parte. Io invece rispetto a loro mi sento così piccolo, figlio unico quale sono, ma nonostante ciò avevo anch’io bisogno di non vedere per qualche giorno le altre due persone che animano la mia famiglia, mamma e papà. 

Per cui, zaino in spalla e si parte per Montefiolo. Non ero mai stato in un convento e quindi per me il posto era molto particolare, c’era una tale calma che mi sono quasi dimenticato della pandemia. Nei tre giorni che trascorrevamo in convento, inoltre, sapevamo che avremmo dovuto attendere una decisione piuttosto importante per il nostro destino: la fatidica sezione con conseguente lettera di partenza dell’esame. Per chi non lo sapesse, quando si svolge l’esame orale si accorpano due classi con lo stesso presidente di commissione, per cui una inizia per prima e l’altra per seconda. Un rito che inevitabilmente favorisce alcuni più di altri, ma che comunque non si può evitare. Io ed i miei amici avevamo solo un desiderio: seconda classe, seconda classe, seconda classe. Il pensiero ci assillava, forse me più di loro, ed alloggiando fuori fino al 15 giugno nella peggiore delle ipotesi avremmo fatto l’orale solo due giorni dopo essere tornati. Non che fossimo impreparati, solo che avevamo maledettamente bisogno di buttare un’ultima, fugace occhiata su tutto. Potrà sembrare stupido, ma quando studi anche lo sguardo finale può risultare decisivo, perché ti aiuta a dare una visione d’insieme, a unire i tasselli del mosaico. Ammetto, ero terrorizzato: ho persino sognato che capitavo primo di tutta la scuola, per la disperazione sbattevo la testa al muro e il mio professore di storia e filosofia cercava di consolarmi dicendomi “non ti preoccupare Emanuele, visto che sei il primo cercheremo di venirti incontro”, ma non ne volevo saperne niente. Mi sono svegliato di soprassalto la mattina dopo, attendendo il messaggio da parte del coordinatore dei prof, perché in quanto rappresentante di classe avrei dovuto essere avvisato dell’esito della decisione. 

A colazione mangiai poco, facevo fatica a concentrarmi per studiare, fino a che lo schermo del mio telefono si illuminò. Prof. R: “potete restare un’altra settimana a Montefiolo, cominciate il 22”. Esplodo in un’impeto di gioia, abbracciandomi con i compagni, gridando e strillando per tutto il convento. Subito dopo gli ho risposto digitando un “daje!!!”. 

Ora ero decisamente più sollevato, sentivo che qualcuno aveva messo una buona parola per me. Del resto si dice che la fortuna aiuta gli audaci, e io in questi lunghi tre mesi di quarantena non mi sono tirato indietro quando si trattava di studiare. Pochi minuti dopo, arriva l’altro messaggio che attendevo, la lettera di partenza: “è uscita la B, fai girare ai tuoi compagni”; io comincio con la C, quindi ero il primo giorno.

Ecco, ora avevo tutto quello che mi serviva. Sezione, cognome, giorno, orario. Potevo finalmente cerchiare in rosso sul calendario il mio personalissimo appuntamento con la storia. 22 giugno 2020. Mi aspettava una settimana di fuoco. 

 

NOTTE PRIMA DEGLI ESAMI

I sette giorni più intensi di tutta la mia vita sono stati letteralmente una sorta di quarantuno-bis, ehm, quarantena bis scusate. Sarà l’assonanza delle parole, oltre che il concetto non poi così distante: praticamente un’altra settimana segregato tra le quattro mura, a rileggere per l’infinitesima volta gli stessi testi, gli stessi autori, gli stessi argomenti. Paradossalmente, più continuavo e più avevo la percezione di disimparare piuttosto che apprendere. Significa che la mia mente aveva superato quella certa soglia che rifiutava di accogliere qualsiasi altro concetto o nozione, che però probabilmente già ospitava, ma io non ne avevo più coscienza. 

Ormai studiavo a orario continuato, ero operativo quasi h24 e la mia giornata era scandita da ritmi più ripetitivi che mai: sveglia alle 8.00, colazione al bar sotto casa alle 8:30, e alle 9:00 giù sui libri fino alle 13:00; poi mi prendevo due ore di stacco che erano occupate dal pranzo, un caffè e se c’era tempo una mini pennica, per ricominciare alle 15:00 e finire alle 20:00. Se ripenso alla settimana appena passata mi viene il voltastomaco, ormai avevo una sensazione di nausea per quello che facevo e che però continuavo a fare perché non mi sentivo mai sicuro al 100%, c’era sempre qualcosa di nuovo che non sapevo o che pensavo di non sapere. 

Motivo per cui, essendo ai limiti di ogni umana sopportazione, non vedevo l’ora che arrivasse il fatidico giorno dell’esame. “Mi devono chiedere proprio quel cavillo lì che non ricordo? E facessero, basta che mi tolgo questo peso di dosso.” Fortunatamente, le radiose giornate di giugno sono passate in tempo abbastanza breve, come spesso succede quando nell’arco di un periodo fai sempre le stesse cose e quindi non riesci a dare un’identità diversa ai giorni che vivi.

Per questo finalmente arriviamo a domenica,  24 ore più tardi sarei stato sarei stato libero. Seppure tutti mi consigliassero di rilassarmi completamente senza vedere un libro, quel giorno studiai più che mai, e le condizioni attorno a me non aiutavano: giornata torrida, in giro non c’era una mosca, erano tutti al mare. Capivo forse appena in tempo cosa intendeva Montale quando scriveva “Mereggiare pallido e assorto”; “bene così, se dovesse capitarmi quel testo saprei esattamente cosa dirgli”. Oltretutto, a casa mia madre era tesa come una corda di violino, non dormiva da qualche giorno e l’avevo incastrata a starmi a sentire ogni singola materia tutto il weekend; mamma non è una persona con i nervi saldi, ecco, ha altri pregi, per cui mi stava trasmettendo tutta l’ansia addosso anche se cercavo di non farmi condizionare più di tanto. Non mi interessava che di matematica, fisica e scienze non capisse un accidente, ma avevo maledettamente bisogno di qualcuno a cui parlare per non ripetermi le cose addosso per la millesima volta, come un pazzo. In poche parole, avevo messo una manetta a entrambi.

Nel frattempo, però, sapevo che la sera stessa mi attendeva l’unico momento bello della giornata: con i ragazzi delle altre sezioni che cominciavano il 22, ci eravamo dati appuntamento davanti scuola per farci coraggio, immortalare l’attimo prima del grande evento, e soprattutto concederci l’unico rituale di questa maturità totalmente differente. Eh già, perché questa è la maturità delle lezioni a distanza, delle mail ai prof per chiedergli di fare o non fare questo, delle crisi isteriche, e tanto altro ancora. Eppure, l’anno scolastico 2019-20 era cominciato in maniera così normale, e ancora più normalmente stava continuando, con il campo scuola, i 100 giorni, e tutti gli altri giusti riti di passaggio che incorniciano un percorso durato cinque anni. E invece, proprio nel momento clou del percorso stesso, ad un passo dalla meta, tutto questo è stato bruscamente spazzato via da un virus bastardo, che oltre a portarsi via un sacco di vite ci ha tolto la nostra meritata ciliegina sulla torta. Chi ce lo avesse mai detto quando non avevamo la benché minima idea di quello che stava per accadere, quando eravamo così beatamente ingenui, o anche quando parlavamo del Coronavirus come se fosse una barzelletta cinese. Durante l’ultimo anno ero solito registrarmi le lezioni dei prof, perché ascoltare per me è molto più vantaggioso che leggere, e quindi ho avuto modo di rivivere gli attimi prima della bufera; è una sensazione indescrivibile, ogni volta che scherzavamo sulla faccenda (persino con i prof!), mi viene un sussulto, perché adesso il Covid-19 fa ridere un po’ meno, ed io mi sento in colpa per la nostra incoscienza.

Fatto sta che, dopo essermi inferto un ultimo atto di masochismo studiando anche dopo cena, era il momento di staccare, era il momento di andare a scuola. “Finalmente una cosa da maturandi normali”, pensai. Ero appena uscito di casa e stavo scendendo le scale del condominio, quando a un certo punto riflettei su quanto è casuale la vita. Io, cresciuto nel quartiere Trieste di Roma e che avevo fatto tutto all’interno dei suoi confini, ero destinato a concludere lì il mio ciclo scolastico. Quando fantasticavo i primi anni di liceo sulla mia maturità, già sapevo come sarebbe andata, con quali prof l’avrei fatta, e soprattutto con quali compagni a fianco. “E invece, -mi dicevo adesso- affronterò questa prova in un anno diverso, in una scuola diversa, e soprattutto in circostanze diverse”. Accesi il motorino, continuai a fantasticare. Mi meravigliai del fatto che “in fondo quante probabilità c’erano che proprio oggi, 21 giugno 2020, io e altre 30/40 persone saremmo state dirette nello stesso posto, con lo stesso intento, anche se a malapena con alcune di loro ci conoscevamo e provenissimo da contesti completamente opposti. Eppure eravamo lì per stare insieme, per unirci, per dirci che ci volevamo bene anche se sapevamo a malapena il nome l’uno dell’altro, solo perché il nostro destino scolastico si è incrociato con la catastrofe più grande dell’umanità dalla Seconda Guerra Mondiale. Di conseguenza i nostri nomi sarebbero stati legati inscindibilmente, volenti o nolenti, e forse per questo da grandi ci ricorderemo di ognuno di noi, anche se intraprenderemo vite quanto mai più lontane l’una dall’altra. 

“Chissà se tutta questa gente si ricorderà di me” , pensai mentre ero a un semaforo. “Chissà se si ricorderà di quel ragazzo -aspè com’è che si chiamava? Lele dai!- che trovava ogni scusa buona per farsi una risata, che era sempre allegro, che faceva colazione tutte le mattine al bar di scuola con cappuccino e cornetto al cioccolato e si macchiava la faccia come un bambino, che aveva la passione per la scrittura, con quel motorino rosso acceso con l’adesivo sul bauletto “romanista Fabris” (quel personaggio del film di Verdone dal titolo, per restare in tema,“Compagni di scuola”, lo sfigatone della classe e che dopo 30 anni continua ad essere preso in giro dai suoi compagni) perché Lele è anche un laziale sfegatato. Già, chissà” pensavo, mentre il semaforo diventava verde. “Io, invece, sicuramente mi ricorderò di ognuno di loro”, mi risposi convinto, perché ogni persona che condivide un’esperienza con me tendo a ricordarla. Forse ricordo pure persone che non avrebbe senso ricordare, non mi piace che quello che vivo finisca nell’oblio. A volte penso di essere un po’ troppo entusiasta rispetto agli altri, sicuramente più disincantati, e che per questo credo non mi capiscano troppe volte. Nel mio elaborato di latino e greco, che aveva come tema le grandi imprese geopolitiche nel mondo antico e il mito che le raccontava, c’era una frase molto bella che ho preso della rivista “Limes”, che diceva “la storia non ha senso se non glielo si dà”. L’autore aveva perfettamente ragione, anche le nostre vite sono piene di inutilità che noi enfatizziamo per darne un senso. In fondo anche un esame di maturità è pur sempre una prova come un’altra, non ci sarebbe bisogno di tratteggiarlo in maniera così mitica. Però, se noi riduciamo le nostre esistenze in maniera così cruda, la vita non avrebbe motivo di essere vissuta. Eccolo il senso del famoso quanto stereotipato “fanciullino” di Pascoli, il guardare la realtà con gli occhi di un bambino che non finisce mai di sorprendersi di fronte alle diverse avventure della vita quanto dai suoi aspetti più semplici.

“E allora sì, anche se la gente spesso non mi capisce, faccio bene a prendere la vita così seriamente poco sul serio, sorprendendomi ancora per le piccole cose, altrimenti non ci sarebbe gusto ad alzarsi la mattina col sorriso sulle labbra solo perché c’è il sole”, risposi definitivamente, mentre intanto solo il mio motorino sfrecciava per strada illuminando i quartieri di Roma. Perché quella notte in effetti era ancora nostra, e niente e nessuno avrebbe potuto portarcela via…

 

IL GRAN FINALE

La mia sveglia, poverina, non era più abituata a suonare per le 6:30 di mattina. L’ultima volta era stata venerdì 28 febbraio, il mio ultimo giorno di scuola. All’inizio del racconto, se ricordate, avevo scritto che non mi sarei mai fatto una ragione se il mio ultimo giorno di scuola fosse stato quel 28 febbraio. In parte avevo perso, il classico giorno di lezione in cui sei in classe, ascolti dal vivo la lezione del prof, fai ricreazione eccetera eccetera non lo avrei più vissuto. D’altra parte però avevo ancora un’ultima occasione in cui sarei entrato a scuola in qualità di studente, in cui ero lì non solo perché lo volevo io ma proprio perché dovevo, che mi legava ancora inscindibilmente al Liceo classico Pilo Albertelli. Per questo, avevo deciso di vivere il giorno del mio esame come fosse un giorno di scuola normale. Sveglia alle 6:30, colazione alle 7:30 al bar di scuola, esattamente come se dovessi entrare come al solito alle 8:00, e avrei impiegato le tre ore che mi separavano dalla fine della mia carriera scolastica ripassando le ultimissime cose. 

Arrivando lì così presto, sotto sotto sapevo che l’avrei incontrato, non poteva che trovarsi al bar anche lui: il mio caro professore di latino e greco, che a volte penso che per certe cose siamo davvero simili, chissà forse anche lui si aspettava di trovarmi lì. Aveva davanti un caffè già bevuto e una sigaretta, la sua dipendenza che si tramanda da generazioni di studenti. Avete presente la sensazione di quando sentite che una persona vi ha cambiati, per cui prima di conoscerla eravate qualcuno e dopo qualcun altro? Ecco, a me è successo con lui. Ricordo che quando decisi che mi sarei trasferito all’Albertelli dopo la bocciatura, i miei cercarono di sistemarmi nella situazione migliore possibile, perché quella era l’ultima chance di farmi rivalutare il mondo della scuola; perciò, supplicarono la vicepresidenza di mettermi nella sezione con i prof più competenti, quando improvvisamente sbucò il nome del professor R, uno dei migliori dicevano, oltre che persino un ottimo giallista (il mio genere preferito, anche se ammetto di non essere un grande lettore). Quell’estate mi lessi pure alcuni libri della sua saga e mi piacquero molto, di quello che sapevo sarebbe stato il mio prof di latino e greco, in modo da conoscerlo ancor prima di presentarmi di persona. Fu ancora più divertente sapere che era romanista sfegatato, quando un giorno durante una versione notò la mia cover del cellulare della Lazio sulla cattedra e disse con tono di rimprovero “Di chi è questa?”. Io, che non capivo esattamente quale fosse la colpa, alzai la mano non troppo convinto, e lui scosse la testa ridendo. Da quel momento in poi non ci demmo più pace, era come giocare al gatto e il topo, il lunedì c’era sempre l’oppresso e l’oppressore a seconda di come andava la domenica sportiva. Al di là del calcio, però, lui è proprio uno di quei professori che ti rimangono dentro, che non è possibile distrarsi durante le sue lezioni, che parla e tu sai già quello che devi sapere. I professori migliori (oltre naturalmente quelli grado di trasmetterti i valori di ciò che insegnano) sono quelli con cui è difficile andare male non perché ti regalino i voti, ma perché già durante le loro lezioni ti mettono in condizione di andare bene. La verità è che capisci di essere davvero stimolato dai tuoi insegnanti quando ti accorgi di prendere qualcosa da loro, e io so che nell’Emanuele di oggi c’è tanto dei miei professori. Ora sto parlando di lui perché è l’unico docente che ha accompagnato la mia classe per tutti e cinque gli anni, è quello più rappresentativo e ci punzecchiamo in continuazione, ma ne ho avuti almeno quattro da cui so di aver ereditato qualcosa. Che poi, in fondo è la soddisfazione più grande per un professore. 

Dal professor S, di storia dell’arte, il valore dell’ascolto; “ormai la gente non presta più attenzione quando le parli”, ci confidava con un filo d’amarezza, cosa che dopo averci riflettuto è indice di grande maleducazione . “Voi studenti siete degli eroi -diceva anche- perché state sei ore ad ascoltare”. Parole sante, prof, peccato ci sia solo lei a riconoscerlo. 

Dal professor P, di storia e filosofia, ho imparato la pazienza e il saper valorizzare le caratteristiche di ogni singola persona. In pochi riescono a mantenere la calma oltre una certa soglia, che a mio parere si sta sempre più abbassando. Forse viviamo troppo stressati per mantenere un equilibrio interiore che si riflette sulle nostre relazioni con gli altri, che è componente essenziale soprattutto (ma non solo) per il mestiere del professore. Dal primo giorno che ha varcato l’entrata del IV E, non ha mai alzato la voce in due anni; onestamente mi domando tutt’ora come abbia fatto. Oltre a ciò è stato anche in grado di metterci ognuno nelle condizioni di fare bene, capendo quali fossero i nostri punti di forza e valorizzandoli, perché se veniamo misurati tutti nella stessa tecnica ci sarà indubbiamente chi verrà innalzato a genio e chi etichettato come stupido; ma se anziché competere tutti contro tutti con le stesse armi -che, come ogni cosa nella vita, vengono padroneggiate da alcuni meglio di altri e vanno a favorire solo quelli che per pura fortuna di assegnazione ci si trovano meglio- lo facessimo individualmente con tecniche personalizzate, ognuno riuscirebbe a trovare una propria collocazione in un contesto senza sentirsi per questo inetto o emarginato. 

Il professor G di matematica e fisica, fin troppo bravo per insegnare a delle capre come il sottoscritto, ci ha insegnato a prendere seriamente poco sul serio molte situazioni così eccessivamente sentite che, con il suo atteggiamento spiritoso, assumevano l’aspetto di un gioco. Persino durante i compiti in classe quando ti beccava a copiare, si divertiva ad essere riuscito a scoprire la furbata dei ragazzi dell’ultimo banco; non c’era rimorso nella sua reazione, era come un bambino che diceva all’altro “hey ti ho fregato!”, e tu lo guardavi incredulo, incerto se deprimerti per esserti guadagnato un 2 o ritenerti salvo, perché in fondo non ti ha fatto sentire neanche troppo in colpa per averci provato. Naturalmente non era contento di pizzicarci con le mani nel sacco, ma in fondo il suo era un comportamento che istillava tranquillità e che ti faceva prendere la vita per quello che è: un gioco. Questo di certo, però, non toglieva il 2 e la necessità di metterti a studiare per rimediare. 

Ci sarebbero anche altri prof da cui mi ritengo ancora positivamente influenzato, come la professoressa O di italiano che ci ha dimostrato che non si è mai troppo giovani per essere dei grandi insegnanti, e che forse è proprio quella linfa vitale propria della giovane età che manca al mondo scolastico, ma non perdiamo il filo e adesso torniamo a noi. Appena i nostri sguardi si sono incrociati, il professor R mi ha dato il cinque come se fossi un suo amico, mi ha chiesto come mi sentivo e  mi ha fatto l’ “in bocca al lupo”. 

Nel frattempo, mi godevo la mia prima colazione al bar sotto scuola dopo oltre tre mesi, con gli amici baristi che mi auguravano buona fortuna; ero insolitamente tranquillo per dover svolgere una prova del genere, avevo la situazione sotto controllo e la coscienza che anche se mi avessero messo questo esame fra quattro anni, non sarei stato comunque pronto quanto avrei voluto. Ci sono prove per cui non si è mai pronti, e la maturità è una di queste. Per cui meglio arrivarci tranquilli senza troppi patemi d’animo, consci comunque di aver dato tutto.

Mentre aspettavo il desiderio era troppo forte, finalmente mi decido ad entrare a scuola. Un’emozione fortissima, bella ma allo stesso tempo era una situazione estraniante. Non saprei come spiegare, forse non l’ho capito neanche io come l’ho trovato il mio amico Pilo, magari è quello di sempre e mi sto inventando tutto. L’erba però era cresciuta altissima in cortile, si vede che era stata poco curata in tutto questo tempo, e mi ha lasciato un po’ di amarezza. Tenevo alla mia scuola, eccome, questa ne era la dimostrazione; quasi che ci sarei andato io per pulirla, per farla tornare come era una volta. 

Per fortuna, la situazione estraniante si è attenuata appena ci hanno accolto i nostri amatissimi bidelli, alla cui categoria si è necessariamente affezionati perché sono i custodi dei nostri ricordi, delle nostre avventure; c’è sempre un bidello in un racconto scolastico. E poi, si sa, sono sempre dalla nostra parte. Lo studente sente come un bisogno fisiologico di dover socializzare con il bidello, perché, nonostante riconosciuto in una categoria professionale, non esiste il distacco che ci può essere con un professore. E chi se le scorda le interminabili chiacchierate con loro mentre andavamo “per un minuto” al bagno, in cui ci rilassavano raccontandoci le loro semplici storie, mentre in classe si parlava dei massimi sistemi. Walter, Elena, Benedetta, Ines, Susanna, Antonella, Pasquale: “non vedevamo l’ora di rivedervi ragazzi”, praticamente in coro. E’ bello pensare di essere così ben voluto da una persona a cui comunque non hai mai fatto niente, se non per il semplice fatto che ti ha visto crescere. E comunque, in effetti, non è poco.

Tic-toc, tic-toc. Era quasi ora. Dopo essere sceso a prendere il pesantissimo zaino che mi ero portato appresso, le urla di incitamento degli amici mi hanno dato la carica. E forse mi hanno aiutato a sentire quello zaino un po’ più leggero. Firmo la certificazione dell’esame all’entrata, e con il mio amico scelto come testimone saliamo le scale direzione Aula Magna. 

Lo dico ancora, mai stato così tranquillo per una prova. “Non può andare male” , dicevo dentro di me. Un po’ perché i racconti del primo compagno esaminato mi avevano tranquillizzato, un po’ perché avevo una buona preparazione alle spalle, un po’ perché me lo sentivo. 

Questo giorno doveva essere il coronamento di un percorso iniziato tre anni fa, quando un ragazzo bocciato, del tutto scettico verso l’universo scolastico, si dava un’ultima possibilità e contemporaneamente si apriva ad un nuovo mondo. Poco prima di entrare ho ripensato a come ero il primo giorno di scuola all’Albertelli, e a come sono adesso. Stava per fare il suo ingresso in aula il ragazzo cambiato, e tutti se ne sarebbero accorti; avrei voluto mostrarlo ai vecchi professori che su di me non scommettevano una lira, non sopporto l’idea che qualcuno mi giudichi come non sono.

Sono da sempre stato un po’ fissato con le date, i giorni, la numerologia. Ricordavo bene quindi cosa stavo facendo il 22 giugno 2019, ero in partenza dalla stazione Termini verso Reggio-Emilia, per un campo estivo organizzato dall’associazione “Libera contro le mafie”. Quel giorno ci fu un inconveniente, riuscii nell’impresa di sbagliare treno e dovetti cambiarlo alla prima fermata disponibile. Nel frattempo, un anno esatto dopo, mi si spalancavano le porte dell’Aula Magna, fui abbagliato dalla luce della soleggiatissima giornata estiva, e una voce disse “il candidato si prepari”.

Si stava per concludere lì non solo un percorso durato tre anni, ma anche i tre mesi più intensi di tutta la mia vita, i tre mesi che hanno sconvolto il mondo. Soprattutto la scuola era stata vittima del Covid-19: le lezioni a distanza, le lettere ai prof, le litigate tra compagni, lo stress pre-esame, la gioia nel rivedersi, il ritorno a una pseudo normalità. Forse la maturità quest’anno non è stata poi così una disgrazia, è stata la molla che ci ha permesso di tirare avanti per tutto questo tempo, senza cui magari saremmo stati totalmente demotivati. E’ ciò che ha dato un senso a quelle lunghe giornate di primavera che non finivano mai. Ripensando al periodo di confinamento, in cui eravamo costretti a stare immobili tra le mura di casa, questa è già una piccola vittoria. In qualche modo siamo riusciti a venirne fuori, siamo qui, dove dobbiamo essere. Già vedo così lontano il periodo della quarantena, a volte mi chiedo come caspita abbiamo resistito a tutto ciò, ma se l’abbiamo fatto cosa sarà mai, in compenso, un esame di maturità. La ministra Azzolina, il giorno di inizio degli esami di stato, ci ha “immortalato” con la frase “siete nella storia ragazzi”. Grazie ministra, ma già che ne eravamo accorti da soli. Noi ragazzi maturandi marchiati a vita come la generazione Covid-19, da una parte disgraziata ma dall’altra resa eterna dalla disgrazia stessa. 

Spesso gli adulti ci rinfacciavano il fatto di essere vissuti in un’epoca così semplice mentre loro avevano assistito ai fatti che sconvolsero l’Italia e il mondo, come gli anni di piombo, la Guerra Fredda o le Torri Gemelle. Un po’ mi pesava questa cosa, neanche fosse una colpa, ma sospettavo che prima o poi sarebbe arrivato anche per noi millenials il momento di collisione con la storia: il pipistrello e il pangolino non potevano scegliere un anno più azzeccato per me e gli altri 500.000 studenti che ci apprestavamo a diventare uomini in un periodo così complesso. Non che ne voglia fare un vanto, intendiamoci, talmente tante vite sono state portate via da questa disgrazia che sarebbe da mitomani anche solo pensare una cosa del genere. Ma com’è quel detto? “Ciò che non uccide, fortifica”, e credo che almeno una parte di quelle 500.000 persone ne è uscita più forte di prima, dimostrandolo il giorno dell’esame di stato. 

“Stavolta, -pensai scherzosamente- non commetterò l’errore di un anno fa: certi treni nella vita passano una sola volta, e adesso io salirò su quello giusto, quello che mi porta lontano”.

“Buongiorno a tutti”, dissi con aria decisamente convinta. 

di Emanuele Caviglia