IL VENETO NEL MONDO … O IL MONDO NEL VENETO?

Di Riccardo Noal

Pirón, góto, cícara, schei… mona; parole che alle orecchie di diciannove italiani su venti sembreranno estranee, ma che per quella persona rimasta avranno il suono di una parlata familiare in terra straniera. Canonicamente definita come “uno degli esiti romanzi del latino”, la lingua veneta al suo interno si articola in vari dialetti (padovano, trevisano, bellunese,…) che differiscono più o meno parzialmente sia per vocabolario che per sintassi. Proprio questa mancanza di norme rende la lingua un colorato miscuglio di sfaccettature in cui anche un semplice cosa fai? può esser tradotto in decine di modi diversi, dal trevisano cossa fatu? al veneziano cossa ti fa?

Per scavare ancor più a fondo ci siamo avvalsi del contributo del prof. Paolo Malaguti, noto scrittore veneto e docente di lettere nel comune di Bassano del Grappa, durante la sua conferenza Forchetta o piròn? Incontri e scontri tra Italiano e veneti, tenutasi il 27.03.2021 via Google Meet presso il Liceo Levi di Montebelluna.

È il I secolo d.C. e Venezia, ancora giovane, ruspante e dal carattere non ancora dominante, è sotto ilgoverno del doge Pietro Orseolo, il quale fa sposare l’omonimo primogenito con una delle prime dame della corte bizantina. La nobildonna, trasferitasi nella Serenissima con tanto di servitori, artisti e letterati, si fa subito portatrice di un vento di novità e imitazione, fatto di usanze bizzarre agli occhi dei veneziani. I bizantini, infatti, fanno più di un bagno la settimana e non toccano il cibo con le mani come si conviene a ogni buon cristiano, affermeranno vari intellettuali dell’epoca. Tra questi, il monaco San Pier Damiani, dirà: “Venezia si deve vergognare di queste mode della decadenza dei tempi e dell’eccessiva raffinatezza”. Proprio però dall’utensile di provenienza bizantina ha origine il termine dialettico pirón, derivato dal participio presente del verbo peirein, ossia “ciò che infilza”.

Ancor più di antiche origini è invece il famoso goto (bicchiere), proveniente dal latino gutta (goccia) o guttum. Nella tarda epoca latina, infatti, veniva indicato con guttum un bicchierino di piccole dimensioni, impiegato durante le funzioni funebri in modo da preservare il più possibile un bene prezioso come il vino. La popolarità di questo termine si deve tuttavia al suo ricorso nelle osterie, dove il guttum era ciò di cui si servivano coloro che, essendo poveri, non potevano permettersi grandi quantità di vino. Curiosamente è rimasta traccia di questo lemma in svariati dialetti settentrionali come quello ligure, lombardo o emiliano,
come si può intuire dalle opere dello scrittore parmense Giovannino Guareschi. Altra parola fin troppo conosciuta sia all’interno che all’esterno dei confini regionali è la parola mona, fusione di due termini dal duplice significato.

Nel primo caso, per indicare una persona sciocca, si ricorre a una parola mediata dallo spagnolo (mono) e derivata dall’arabo maimun, traducibile con “scimmia”, mentre se utilizzata con accezione sessuale verso il sesso femminile, si sfocia nella sua origine greca munì, risalente agli scambi tra Venezia e Costantinopoli. Spostandosi verso nord, vasta è anche l’eredità germanica del nostro dialetto, partendo da farra (presente nel nome di molti comuni veneti), antico toponimo longobardo indicante l’unità fortificata, sbrego (strappo), proveniente dal verbo tedesco brechen (rompere) e risalente alla più recente dominazione austriaca (XIX secolo), e per finire, i famosi schei, riconducibili alla moneta divisionale del fiorino austriaco, ossia lo scheidemunze, il quale, spesso abbreviato scheid., era letto dagli inesperti abitanti del posto come schei.

Chi avrebbe mai detto che anche un film western sarebbe stato un punto d’innesto per la lingua veneta … durante le proiezioni dei film western degli anni ’60 e ’70 nei cinema comunali, infatti, durante il momento cruciale dello scontro o del duello veniva suonata la celebre marcia del deghejo, accompagnata dalla frase “suoniamo il deghejo e andiamo all’attacco”. Fu così che film come “La Battaglia di Alamo” fornirono ai giovani spettatori dell’epoca il termine che tuttora indica confusione o caos: deghejo, come confermato da un anziano proiezionista del cinema comunale di Vidor. Al termine di ogni giornata lavorativa che si rispettasse, una famiglia di veneti si radunava nel caldo ambiente della stalla per far fiò. Odiernamente questo modo di dire ha perso parte del suo reale significato, che originariamente indicava quel momento in cui, dopo i lavori pesanti della giornata, le donne filavano e gli uomini intrecciavano ceste di vimini o riparavano gli attrezzi da lavoro, mentre i bambini, se esenti dall’obbligo scolastico, ricevevano dalle generazioni più avanzate un insegnamento culturale, ovviamente basato su una forte impronta religiosa, ma di valenza comunque didattica e didascalica, come racconta il prof. Malaguti, la cui bisnonna ricordava dopo svariati anni le varie fasi di semina del campo proprio grazie ad una filastrocca imparata in questo modo.