Le nuove forme di Espressionismo

Con il nostro professore di arte nelle ore di educazione civica ci siamo relazionati con nuove forme di espressioni artistiche.

Non avrei mai potuto immaginare che potesse instaurarsi con il mondo dell’arte una relazione coinvolgente l’individuo a 360 gradi.

Ho, infatti, sempre avuto la concezione che l’esperienza vissuta approcciandosi all’universo artistico, potesse coinvolgere solo uno dei nostri cinque sensi, che fosse un’esperienza individuale e che portasse l’osservatore esclusivamente ad una contemplazione statica dell’opera.

È già con i primi tre autori presentati nella prima lezione che sono riuscita a ricredermi: Nam June Paik, Bill Viola e Tony Oursler.

Nam June Paik fu tra i primi pionieri nello sviluppo della video arte. In una prima fase embrionale, si servì di un schermo con valvole in tubo catodico, a cui accostò dei magneti, ricreando nello schermo delle forme accattivanti, garantendo un nuovo modo di fornire l’immagine. Pur utilizzando dei materiali differenti, rimase comunque un’opera d’arte con una musealizzazione di carattere statico.

È in una sua creazione successiva che l’artista in questione compie un’evoluzione avvicinandosi a una visione più performativa. L’opera era formata da un violoncello, e uno schermo televisivo che proiettava delle immagini contemporaneamente all’esibizione della violinista. La presenza di musica e l’associazione del suono all’immagine, garantiva l’approccio a un’esperienza plurisensoriale. L’opera d’arte non era più statica: il fruitore poteva assistere a un evento che non si sarebbe più riprodotto nello stesso modo, la performance della violinista sarebbe infatti cambiata di volta in volta con l’utilizzo di immagini diverse. Un’altra tappa evolutiva era sempre all’interno della sala la presenza di un ballerino che danzava mentre venivano riprodotte delle immagini distorte da più punti di vista. Così anche lo spazio che circonda l’opera inizia ad avere il suo significato artistico.

È con Bill Viola, però, che lo spazio inizia ad avere maggiore importanza. La stanza diventa, infatti, un’opera d’arte, un supporto per la creatività dell’artista. Bill Viola elabora un tipo di arte interattiva con immagini che nella stanza cambiano continuamente garantendo un grado di coinvolgimento elevato. Questo per far sì che l’opera d’arte non sia di carattere passivo ma esperienziale, che interagisca con l’osservatore, ma sempre in maniera virtuale.

Tony Oursler compie, invece, un passo in avanti con la moltiplicazione delle superfici di proiezione. Garantisce, infatti, la nascita di nuove video sculture, riproducendo un immagine su sfere o superfici irregolari portando così l’osservatore a relazionarsi con un mondo artistico che ospita nuovi effetti visivi.

La caratteristica di queste innovazioni è garantire il coinvolgimento dello spettatore nell’ambiente in cui si trova. L’arte contemporanea ha cercato di trovare una forma di coinvolgimento fisico, e di dirigersi verso l’immersione totale dell’osservatore nell’opera. Non si è più di fronte a una forma artistica statica e immutabile, l’osservatore è immerso completamente nella creazione artistica, e si approccia a una esperienza che è plurisensoriale.

È con Marina Abramović che, però, sono stata ulteriormente colpita e catturata da questa nuova concezione artistica. Marina Abramović, artista serba, attiva fin dagli anni Sessanta del XX secolo, propone un nuovo modo di fare arte, esplorando le relazioni tra l’artista e il pubblico, e il contrasto tra i limiti del corpo e le capacità intellettive. Marina Abramović si è, infatti, autodefinita la “nonna delle performance art”. La performance art è una forma artistica estremamente complessa e prevede che l’artista crei qualcosa di irripetibile condividendo l’esperienza con il proprio pubblico. La performance art è un dialogo che si instaura tra il performer e il pubblico, che garantisce un contatto diretto con lo spettatore, cosa mai prima concepita.

Può spesso risultare a molti criptica o di difficile comprensione, come nel mio caso, che non essendo mai stata abituata a simili approcci con il mondo dell’arte, ritenevo, a primo impatto, potesse non conquistarmi e rimanere distante anni luce da me e dalla mia concezione: non comprendevo, ad esempio, come potesse essere considerata arte vedere l’artista sedersi su una sedia per ore e ore e avere la possibilità di sedersi a turno di fronte a lei. La performance in questione è The artist is present, e soltanto osservandone le riprese, sono riuscita a coglierne il vero senso.

Inizialmente mi chiedevo chi mai avrebbe voluto sedersi su quella sedia. In città come New York o Milano, dove si sono tenute queste performance, la gente, infatti, non vede la necessità nella quotidianità frenetica di spendere tempo nel semplice far nulla.

Ma Marina Abramović si è seduta sulla stessa sedia per tre mesi, ogni giorno per 8 ore, e migliaia di persone hanno fatto a volte giorni di coda in attesa per poter entrare al MOMA e semplicemente sedersi di fronte alla sua fisicità intensa e il suo sguardo non giudicante. Il bisogno della gente era quello di vivere effettivamente qualcosa di diverso, il pubblico non era più in gruppo, la relazione era uno a uno.

Mentre osservavo il video, notavo i loro volti: le persone che si sedevano di fronte a lei erano fotografati, ripresi dalla videocamera, osservati da lei e non avevano altro posto per fuggire eccetto che in loro stessi. Marina ha affermato di essere riuscita a cogliere nelle espressioni di molti i segni di dolore e solitudine con un semplice sguardo in un silenzio contemplativo; c’è così tanto di incredibile quando guardi negli occhi di qualcuno.

Più andavo avanti nella visione più le mie domande riuscivano a trovare una risposta. Se infatti, mi sono detta, arte è comunicare, comunicare un messaggio, una sensazione, un’emozione attraverso un’opera d’arte, sia essa un quadro, una statua o un dipinto che rimane conservata per secoli nelle mura di un museo, perché una simile esperienza non può considerarsi una forma d’arte?

Chiara Lopresti 4C

 

Immagine di fotocopertina: Tony Oursler Black Box’s, courtesy of Lisson Gallery