Le nuove forme di espressione artistica

Tra le differenti forme di espressione artistica si riconoscono i musei digitali, i quali si distinguono in due tipologie: tour virtuali adottati dai musei, in cui ci si può accedere attraverso i loro siti, o stanze contornate da istallazioni e proiezioni. Quest’ultime vedono i loro pionieri a partire dagli anni Settanta con tre personaggi fondamentali da considerare come padri di tale movimento artistico. Primo tra tutti Nam June Paik, con il quale si ha ancora un museo statico poiché cambiano solo i materiali dell’opera. In primo luogo l’autore utilizza uno schermo, al quale accosta dei magneti, che modificano le immagini con il fine di creare nuove forme distorte della realtà. Solo successivamente sperimentò la ripresa e la rielaborazione di registrazioni con la telecamera, così riuscendo ad introdurre una novità: il senso di movimento e continuità nelle performance con associazioni plurisensoriali. Dunque possiamo notare come un elemento quotidiano, il televisore, diventi il protagonista dell’opera. La video arte inizia già ad evolversi poco dopo con Bill Viola, secondo pilastro dei musei virtuali, un artista che non solo proietta immagini con significati nascosti da comprendere, ma anche effetti tecnologici che portano al continuo mutare delle figure affinché venga attivamente coinvolto il pubblico. Dunque possiamo notare la prima fondamentale differenza, ossia l’entrare in un contesto e farne parte, dal museo tradizionale, in cui vi è un quadro statico da osservare ed analizzare. L’ultimo dei padri fondatori è Tony Oursler, il quale moltiplica le superfici di proiezione, esse possono essere differenti forme geometriche al di là delle pareti, così ampliando i piani sensoriali dello spettatore. Tutto questo ha preparato il campo a musei dedicati oggi esclusivamente alla video arte come il “Temlab Borderless” di Tokyo. La parte rivoluzionaria di queste tipologie di museo è il fatto che non ci sia un percorso prestabilito da seguire; le istallazioni mutano in continuazione a seconda del numero di persone e della loro partecipazione; cambia l’approccio rispetto al museo tradizionale in quanto è fondamentale toccare le rappresentazioni e fare foto. Ciò che accomuna tali differenti forme di espressione è il fine ultimo di ogni artista, ossia creare modi di coinvolgimento diretto per gli spettatori.

MARINA ABRAMOVIC

Nasce a Belgrado da genitori partigiani sopravvissuti alla seconda guerra mondiale. Dal 1965 al 1972 studia presso l’Accademia delle Belle Arti di Belgrado e dal 1973 inizia a concretizzare le sue prime performance. Lungo la sua carriera artistica vi è un graduale, progressivo e crescente cambiamento nei significati e nelle rappresentazioni, sempre più violente e profonde, da lei ideate. In un primo momento le opere vengono filmate e poi proiettate fino ad evolversi con l’utilizzo del proprio corpo. Dunque interagisce direttamente con il pubblico, l’opera d’arte non è più una mediatrice tra autore e spettatore ma esplora le relazioni tra i due e il contrasto tra i limiti del fisico e le possibilità della mente. Tra le rappresentazioni più celebri di Marina Abramovic c’è la serie di performance dal titolo “Rhythm” messe in atto negli anni Settanta (Rhythm 10 nel 1973 a Napoli, Rhythm 5 nel 1974 a Belgrade, Rhythm 2 nel 1974 a Zagabria, Rhythm 4 nel 1974 a Milano, Rhythm 0 nel 1974 a Napoli). Tale serie colpì particolarmente per le violenze che l’artista infliggeva a sé stessa con il fine di portare il suo corpo all’estremo limite fisico, osservare fino a che punto il corpo umano riesce a resistere e sopravvivere e mettere alla prova i comportamenti del pubblico.
Emblematico è il caso della performance “Rhythm 5”, il cui numero si riferisce alle cinque punte della stella utilizzata, durante la quale Abramovic rischiò la vita.
L’artista si era infatti distesa al centro di questa stella in legno i cui lati vennero poi dati alle fiamme. Nel mentre la performance si trasformò in una prigione di fuoco e l’aria diventò presto irrespirabile tanto che Abramovic perse i sensi. Per fortuna gli astanti si accorsero del problema e soccorsero l’artista per tirarla via da quella trappola mortale. Ancor più scalpore destò un’altra performance di questa serie, “Rhythm 0”. In quel caso l’artista si alzò in piedi al centro di una stanza in cui erano presenti vari utensili (coltelli, piume, corde, forbici e persino una pistola) e spiegò agli spettatori che per sei ore sarebbe rimasta immobile come un oggetto e ognuno avrebbe potuto fare di quel corpo ciò che desiderava. Dopo un paio di ore di titubanza, alcuni iniziarono ad accanirsi sull’artista, in modo violento e incontrollato: le tagliarono i vestiti e la pelle con una lametta fino a puntarle contro la pistola. A quel punto altri spettatori intervennero e nacque un’accesa discussione che rischiò di sfociare in una rissa. La performance, tutto sommato, aveva funzionato. Aveva mostrato il peggio degli esseri umani che, se sicuri dell’impunità, rischiano di dare sfogo alle peggiori fantasie sadiche. Tuttavia l’opera di Abramovic si concludeva con una flebile speranza poiché qualcuno alla fine si era opposto a quella violenza senza senso.

Ho voluto analizzare nello specifico queste due performance poiché mi hanno particolarmente colpito e fatto riflettere. In un primo momento mi sono trovata in difficoltà nel considerarle forme d’arte, probabilmente perché sono abituata a ritenere le opere come un qualcosa di statico, ma se mi soffermo sul significato che Marina Abramovic le ha attribuito riesco a rivalutarle. Ho notato che per far trasmettere nell’arte argomenti profondi non è necessario saper dipingere una scena di inquietudine con ombre ed espressioni facciali che ci suscitano determinate emozioni, ma lo si può attuare anche coinvolgendo fisicamente e direttamente il pubblico stesso. Di certo la prima reazione può essere quella di confusione, io in primis non riuscivo a comprendere a pieno il senso delle rappresentazioni di Marina, ma se ci riflettiamo sopra è proprio vero che non possiamo capire comportamenti e reazioni del nostro corpo finché quest’ultimo non viene messo alla prova. Personalmente condivido a pieno ciò che sostiene il filosofo Socrate per poterci integrare in una società o semplicemente nella vita, “conosci te stesso”, e penso che una via per poter scoprire certi nostri lati, magari i più nascosti, sia proprio quella di creare situazioni per sperimentarci, proprio come ci propone di fare l’artista con le sue performance. Difatti attraverso i gesti violenti di Marina si riesce a raggiungere il suo fine ultimo: mettere alla prova i comportamenti del pubblico.

Giulia Silvetti 4C cl